SPORT
SUPERLEGA E LA CULTURA DEL CALCIO
Guido Barosio
In Italia Draghi e Spadafora hanno commentato lo tsumani con poche righe, annoiate e di pura facciata.
Immaginatevi uno di quei vecchi saloon polverosi di Sergio Leone: vociare sopra le righe, espressioni non propriamente da collegio svizzero, ballerine appassite e disponibili, whiskey tanto e soldi pochi, unti e stropicciati. Sbattendo le porte fanno il loro ingresso dodici riccastri protervi, tipo Rockerduck (Paperone no, in fondo è simpatico) oppure Ebenezer Scrooge, ma prima della notte di Natale. Il truppone si avvicina deciso dove gli avventori giocano a carte, tutti insieme battono il pugno sul tavolo e intimano, con un filo di voce, da veri cattivi: “Adesso le regole le dettiamo noi. Noi siamo noi (elencando rapidi i propri nomi) e voi non siete un c…(parafrasando il Marchese del Grillo di Alberto Sordi). Chi non è invitato deve farsi da parte”. Ecco, questo film è andato in onda domenica 18 aprile, quando i dodici ‘fratelli ricchi’ hanno cercato di portarsi a casa ‘il gioco più bello del mondo’, o almeno la parte ricca del medesimo. Il saloon non c’era (sostituito dall’asettico web) ma l’approccio alla vicenda, e il tone of voice, non si sono discostati per nulla dal mio preambolo. Quello che i magnifici dodici non avevano calcolato – arroganza? Superficialità? Totale ignoranza delle più comuni regole della comunicazione? Probabilmente tutto insieme – è stata la formidabile rivolta di uno schieramento neppure immaginabile: FIFA, UEFA, coi loro presidenti, la potentissima Premier League (dove sono di casa la più parte dei riccastri), tutti gli altri club del mondo, quelli esclusi e quelli potenzialmente invitati, scrittori, giornalisti, singoli calciatori di fama internazionale, tifosi (anche, e soprattutto, quelli dei riccastri), ultras e semplici opinionisti del giorno dopo che si sono accodati. Miracolo! Il progetto della superlega è riuscito a compattare, per la prima volta nella storia, un mondo eterogeneo e storicamente diviso in fazioni, l’una contro l’altra armata. Il nuovo volto scintillante del calcio è stato annunciato e subito tumulato, tra gli sberleffi, in poco più di ventiquattr’ore. Con danni di immagine – individuali e societari – ancora non ben quantificabili. Due le ragioni più evidenti. La superlega ha provato ad infrangere uno dei presupposti stessi dello sport: deve vincere il migliore, anche se inatteso. Poi non siamo a Disneyland, il calcio è una formidabile industria dove hanno quasi sempre vinto i più ricchi, qualche volta rubando, ma mai alterando le regole. E in quel ‘quasi’ c’è tantissimo, perché il nuovo progetto lo eliminava con un semplice clic. Una superlega senza retrocessioni è una mossa da bari al casino, la partecipazione ‘ad invito’ va bene per una serata allo yacht club, non certo per il buon vecchio football che – sorpresona – resterà sempre il ‘buon vecchio football’, anche quando andremo su Marte. Ma c’è un secondo aspetto che merita attenzione. La superlega è stata proposta senza basi comprensibili (date, modi, tempi, calendari…), senza progetto operativo e, davvero surreale, senza uno straccio di business plan. Chi vuole cambiare il proprio mondo professionale per ragioni economiche deve snocciolare possibili fatturati, nomi di robusti sponsor, diritti televisivi, strategie di vendita del prodotto. Insomma, un dossier di 100 pagine fitte fitte in grado di far stramazzare ogni possibile detrattore. Di più, serve la visione, la filosofia, l’anima, che si può anche comprare, ma bisogna studiare per farlo. Così restano le facce dei presidenti, e solo quelle, troppo simili al volto di Rockerduck per non far sorridere. Detto che per molti di loro la vicenda si rivelerà una sconfitta anche personale, occorre ragionare sul futuro del calcio, che è, appunto, un vecchio saloon che non può restare tale.
Un progetto come la superlega è nato trovando terreno fertile tra inadeguatezze, dittature consolidate, gruppi di potere, incomprensibili scelte operative: i mondiali in Qatar e pure fuori stagione, la Champions a 36 squadre, con sempre più team e sempre meno qualità. Le leggi del mercato ci parlano di club sempre più ricchi, di altri indebitatissimi, di società appese al filo dei diritti televisivi, il modernissimo e la preistoria sotto lo stesso tetto, peggio, il modernissimo e la preistoria chiamati ad affrontarsi ad armi dispari. Da dove partire? Dal business? Dai soldi? Come vorrebbero gli strenui difensori della superlega compostata? Certamente no, ma dal prodotto si. E il prodotto è la cultura, la cultura del calcio. Ogni azione economica si basa sul prodotto, quando il prodotto non esiste (o non è reale) interviene la finanza, che certo non ha niente a che spartire con un fenomeno popolare. Il calcio è cultura perché è appartenenza al territorio (la città, la squadra, il club, la bandiera), identità, fascinazione (il campione, il mito, l’eroe), epopea (il Grande Torino, il Real di Puskas, il Brasile di Pelé), tradizione (la nostra storia, i nostri padri e i nostri nonni, la nostra curva e il nostro stadio), ma anche letteratura, passione, coinvolgimento emotivo. L’unico luogo al mondo dove questo è stato messo a profitto è il Regno Unito. L’arrivo dei petrolieri, dei magnati americani, del moderno televisivo, degli sponsor sulle maglie, ha modificato appena il dna di uno sport che è ancora tribù e cultura, o meglio, cultura della tribù. Non è un caso che le maglie delle squadre inglesi sono vendute assai più delle nostre, ed in tutto il mondo. Forza del brand, di un brand che ha saputo rigenerarsi. Poi i problemi ci sono anche lì, ma meno, e maggiormente affrontabili. Perché esiste ancora lo spirito del football, quello che ha portato i tifosi delle squadre inglesi in superleague a rivoltarsi immediatamente, insieme ai propri capitani e al premier Boris Johnson, perché avevano capito che cosa era in gioco. Mentre in Italia Draghi e Spadafora hanno commentato lo tsumani con poche righe, annoiate e di pura facciata. Certo viene da pensare che in Inghilterra sono nate – più di centocinquant’anni fa – tutte le discipline sportive attualmente praticate: football, tennis, atletica, rugby, vela… Si sono affermate per forgiare – alla guerra e all’impresa – le più giovani generazioni dell’impero. Altra storia e altri risultati. Ripartire vuol dire anche comprendere il valore dei simboli: quello che i tifosi vogliono è la Champions (erede della Coppa dei Campioni) – il trofeo che sollevarono George Best e Johan Cruyff – non una brocca di latta gonfia di euro stropicciati. I tifosi (non solo quelli allo stadio, ma i milioni di telespettatori) non desiderano vedere tutte le settimane Juve- Bayern, oppure Real – United, fino allo sfinimento, ma amano attendere un incontro unico, che capita quando deve capitare. Il calcio europeo – ma anche mondiale – deve ripartire dal proprio patrimonio, che è brand + passione. Poi servono regole efficaci, un monte agli ingaggi degli atleti (molto meglio che un tetto, fumoso, pensato per le società), una strategia per blindare e valorizzare i brand storici, linee d’azione condivise per ottimizzare i risultati commerciali, una realistica valorizzazione dei diritti televisivi, che non imponga, come sarà in Italia, più abbonamenti (e piattaforme) per seguire la propria squadra. Poi vinceranno quasi sempre i più ricchi. Ma quella è la natura delle cose. L’importante è che resti salvaguardato quel ‘quasi’, che è nell’interesse di tutti, anche di chi ha più risorse. Perché vincere è bello solo se puoi perdere.