STORIA

Jan Palach, la torcia umana

Paolo Vieta

Alle 14:25 si dà fuoco, attraversa la piazza di corsa fino ad urtare un tram.

La Boemia è un territorio circondato da montagne che ne definiscono i confini e ne determinano il carattere degli abitanti, orgogliosi ed indipendenti. Non è un caso che a Praga sia stato assassinato nel 1942 Reinhard Heydrich, numero due delle SS. In tempi più recenti, il turista vi troverà molti uffici di cambio, perché nessun commerciante accetta pagamenti in Euro, cosa che, invece, altrove è assai diffusa, creando di fatto una doppia circolazione della moneta. Questo è lo spirito con cui i cechi affrontano l’occupazione sovietica, avvenuta il 21 agosto 1968. Alle pressanti iniziative di Dubcek, atte a creare un «socialismo dal volto umano» introducendo parziali libertà democratiche, in primis quella di stampa, ed una maggiore autonomia del Paese nell’ambito internazionale, l’URSS reagisce in modo sproporzionato inviando una forza di occupazione di 6.300 carri armati (ben più di quelli che erano serviti ad Hitler per invadere la Francia nel 1940) e 400.000 soldati. Perché? Non solo per reprimere le proteste di alcune migliaia di studenti. La politica estera russa, non solo sovietica, ha come chiave di lettura la paranoia. I russi, abitano un territorio immenso e ricco, privo di difese naturali; dai tempi di Pietro il Grande (1672-1725) sono stati più volte invasi (Carlo XII di Svezia, Napoleone, il Kaiser, Hitler) e per uscirne vincitori si sono visti costretti a fare terra bruciata delle proprie città e dei propri campi. A questo si aggiunga la sindrome da accerchiamento data dal non avere sbocchi sugli oceani e limitati affacci su mari semichiusi Baltico, Nero, Mediterraneo (ancora oggi permangono queste esigenze e spiegano l’intervento in Siria, a sostegno della propria base navale, e le influenze in Libia, per crearne un’altra). Per questo hanno sempre cercato di spingersi verso sud, attraverso i Canati in direzione dell’Oceano Indiano: si pensi al Grande Gioco, come l’aveva definito Kipling nell’800, rinnovato nel 1980 con l’invasione dell’Afghanistan. Con questi presupposti, fanno subito proprio il peggiore dei timori possibili, l’eventualità che Dubcek voglia portare la Cecoslovacchia all’occidente. Quindi si preparano ad una guerra contro l’esercito di Praga (uno dei più forti oltrecortina, perché il paese era uno dei più industrializzati) e contro un aiuto militare della Nato attraverso la confinante Baviera, Repubblica Federale Tedesca. Il significato è anche politico, con l’eccezione della Romania, vi partecipano tutti gli stati del Patto di Varsavia. Mentre i sovietici entrano a Praga, in un clima che Kundera ricorda ne L’insostenibile leggerezza dell’essere, l’esercito cecoslovacco è forzatamente inviato ai confini, lontano dai centri di comando e Dubcek costretto dapprima ad accettare una normalizzazione, quindi rimosso ed inviato come ambasciatore in Turchia, poi, tranquillizzate le acque, richiamato, espulso dal partito e da ogni incarico. Gli orgogliosi studenti di Praga non cessano però di protestare, con manifestazioni ed occupazioni; tra questi Jan Palach che pensa ad un gesto eclatante per incitare l’opinione pubblica alla resistenza. Il 6 gennaio 1969 propone al leader studentesco di occupare la sede centrale della Radio Cecoslovacca, ma la cosa non ha seguito. Pochi giorni dopo, il 16 gennaio, memore del monaco buddista di Saigon, Tick Quang Duc, si cosparge di benzina e si dà fuoco in Piazza San Venceslao ai piedi della scalinata del Museo Nazionale. Nel cuore di Nové Mesto, la Città Nuova, centro delle attività economiche e commerciali di Praga, Piazza San Venceslao è un lungo vialone che sale verso il maestoso edificio in cui ha sede il Museo Nazionale. Museo non di storia o etnografico, come ci si potrebbe aspettare, ma di scienze naturali, con una ricca collezione di minerali, frutto della ricca geologia boema. Palach potrebbe scegliere, a Praga, luoghi più storici, come il Palazzo Reale dove avvenne la defenestrazione che aprì la Guerra dei Trent’anni, o la Piazza della Città Vecchia con l’orologio astronomico, dove visse Kafka. Opta, invece per la piazza moderna che è il centro delle attività e luogo affollato e trafficato dove dare visibilità alla sua protesta.

Alle 14:25 si dà fuoco, attraversa la piazza di corsa fino ad urtare un tram, è soccorso da alcuni passanti cui indica la lettera di rivendicazione del gesto, quindi portato alla Clinica di chirurgia plastica, ancora cosciente. La notizia si diffonde in poche ore e suscita un’attenzione mediatica enorme, anche grazie al contenuto delle lettere e delle sue dichiarazioni. Inizia qui il mistero di Palach. Oltre a dichiarare che non si tratta di un suicidio, per ragioni di carattere personale, ma di protesta, rivendica la fine della censura e della propaganda degli occupanti, minacciando di essere solo il primo di un gruppo di militanti pronti a replicare il gesto: alla torcia n°1 ne seguiranno altre a cadenza regolare. Il giorno 19 gennaio, però, chiede al rappresentante degli studenti Holecek di dire agli altri membri del gruppo di non uccidersi. Non è chiaro se sia stato frainteso o se non sia più del tutto lucido. Il decesso è dichiarato alle 15:30 dello stesso giorno. Cortei spontanei, comizi, manifestazioni si susseguono in tutta la Cecoslovacchia. Ripetuti assembramenti ed uno sciopero della fame durato quattro giorni, in Piazza San Venceslao, presso il monumento con la sua maschera commemorativa. Il regime non disperde con la violenza queste manifestazioni, ma getta il discredito su Palach diffondendo la «teoria del fuoco freddo», secondo cui, sobillato da personaggi di destra, sarebbe stato indotto ad inscenare un finto suicidio, con fiamme solo apparenti, poi qualcosa sarebbe andato storto. Un precedente, in questo senso, si potrebbe trovare in van der Lubbe, l’attivista comunista che i nazisti indussero ad incendiare il Reichstag il 7 febbraio 1933. Nel frattempo viene realizzata un’area verde in Piazza San Venceslao, allo scopo di impedire assembramenti e commemorazioni, mentre la polizia cerca di scoprire se effettivamente esiste il gruppo menzionato da Palach, che metterebbe in discussione la versione ufficiale dello studente istigato. In effetti sono parecchie le persone, dentro e fuori la Cecoslovacchia, che ne emulano il gesto, ma per lo più sono suicidi motivati da ragioni psichiche o personali e non fanno presa sull’opinione pubblica. Diverso il caso di Jan Zajìc, studente diciottenne che aveva preso parte allo sciopero della fame del 21 gennaio, il quale il 25 febbraio torna in Piazza San Venceslao e si dà fuoco presso il civico 39. Non riesce però ad attirare l’attenzione dei passanti ed il sacrificio è noto solo tramite i messaggi lasciati ai media. In ogni caso, non è in rapporti con Palach e non fa parte di un gruppo organizzato. La stessa Sicurezza Pubblica non trova riscontri, per cui è probabile che, sull’esistenza di seguaci pronti ad immolarsi come torce umane, Palach abbia mentito, per creare aspettativa nell’opinione pubblica. Al discredito ed alla delegittimazione, il regime fa seguire la cancellazione e la rimozione dalla memoria collettiva. Poiché in occasione di ogni anniversario, una folla si reca a rendere omaggio alla tomba, presso Olsany il cimitero principale di Praga, questa viene rimossa, quindi al suo posto collocata una finta lapide con un nome femminile. I resti riesumati, sono cremati e sepolti nel cimitero di Vsetaty, paese natale di Palach. Palach è stato commemorato solo il 15 gennaio 1989, con manifestazioni duramente represse: 1400 arresti, l’oppositore Havel, essendosi appellato su radio estere a non emularne il gesto, condannato per sobillazione a nove mesi di carcere. È la spallata praghese al muro di Berlino, con la sua caduta nell’autunno, la commemorazione di Palach diventa libera. Gli italiani, popolo di musicisti, gli dedicano due canzoni: Primavere di Praga, Francesco Guccini 1970 e Jan Palach, Compagnia dell’Anello (gruppo di destra vicino al Movimento Sociale Italiano) 1975. Oggi, ad oltre cinquant’anni di distanza, in chiave storica, il lettore giudichi con la propria sensibilità se il partito di destra abbia fatto propri alcuni temi per strumentalizzazione politica, per verità storica o, semplicemente, per colmare un vuoto lasciato da altri.