EDITORIALE

L’ITALIA È AZZURRA? MAGARI

Guido Barosio

Il calcio divenne presto il fenomeno più amato e diffuso, praticato nelle favelas come nei college.

 Lo sport agonistico e professionale nulla ha, o quasi, a che vedere con l’attività fisica di base. Quest’ultima è ricerca di salute e benessere, di armonia con sé stessi e con coloro che dividono il nostro interesse. Mentre accedono all’agonismo solo i migliori, coloro che gareggiano per vincere, quelli che – professionisti o no – modificano il proprio stile di vita con la pratica della propria disciplina. Atleti di questo tipo ci sono sostanzialmente sempre stati, a partire dalla Grecia classica, dove venivano adorati come semidei. La svolta si deve agli inglesi che – a partire dalla metà dell’Ottocento – inventarono quasi tutti gli sport moderni: calcio, rugby, tennis, atletica, vela… Gli altri, in particolare gli americani, arrivarono dopo e si allinearono ad un mondo fatto di regole, tornei, federazioni, board e presidenti. Un mondo molto simile alla politica. Perché lo sport di ispirazione britannica nasce con due precisi obiettivi: allenare, fisicamente e mentalmente, la propria gioventù ai cimenti internazionale (guerre e gestione dell’impero coloniale); creare una cabina di contenimento dei conflitti, dove le diverse nazioni potessero confrontarsi senza il ricorso alle armi. Il tutto ammantato di ideali e di simboli: l’orgoglio per la bandiera e per la patria, il cameratismo e la fratellanza tra i componenti della medesima squadra, ma anche un ben architettato universalismo ideologico, dove le Olimpiadi furono il vertice di un mondo che rispettava le medesime regole, dove tutti si allineavo ad uno spirito comune ed accettavano di mettersi a confronto. Il calcio divenne presto il fenomeno più amato e diffuso, praticato nelle favelas come nei college, coi suoi tanti campioni adorati (oppure odiati) come riferimenti planetari della bellezza tecnica ed agonistica. Campioni anche ribelli, come George Best e Diego Armando Maradona. Il calcio, che piaccia o meno, è oggi la bandiera delle patrie e delle città, degli infiniti campanili e delle comunità che intendono prevalere sulle altre. Una lettura fondamentale per comprendere il fenomeno è ‘La tribù del calcio’ di Desmond Morris. Ma c’è dell’altro: il football è anche business, finanza, diritti televisivi, sponsor e formidabile fonte di arricchimento per i semidei contemporanei. Però, in fondo, niente di diverso rispetto al cinema, ai grandi concerti rock e ad altri sport, come tennis e basket. Ma quale relazione esiste tra l’affermazione nello sport e la reputazione di una città, o di una singola nazione? I popoli che vincono nella pratica agonistica sono anche i migliori nell’economia, nella società civile e nella politica? Qualche volta può accadere, ma non sempre. Certo è un indice. Ci sono state nazioni che hanno usato lo sport come simbolo del loro sistema politico: l’Italia di Mussolini (due mondiali vinti nel calcio), l’Argentina di Videla, l’URSS e la DDR, che fabbricarono atleti in laboratorio. Ma anche nazioni più virtuose si sono identificate nei propri campioni: la Nuova Zelanda con gli All Blacks, il Sudafrica di Mandela con la nazionale di rugby del 1995, i paesi nordici con le affermazioni nell’hockey e nello sci di fondo. Ma torniamo al calcio, perché non c’è niente come il calcio per attrazione popolare e notorietà globale. Uno sport inventato dagli inglesi dove la nazionale inglese ha vinto pochissimo, solo i mondiali casalinghi del 1966.

Uno sport dove il colore della pelle conta pochissimo e conterà sempre meno. Uno sport che, più di quasi tutti gli altri, identifica la patria con il risultato agonistico. E allora, dopo la vittoria agli Europei, possiamo dire che l’Italia ha alzato la coppa perché è una nazione vincente? Forse, ma più che altro possiamo sperare (e addirittura pregare) che l’Italia di Mancini sia (o diventi) uno specchio del Paese. Nel calcio si può vincere per estro e per talento, per singoli episodi che cambiano la storia di una partita, a volte per fortuna. E allora ci si trova lì, prima di tutti, quasi per un accadimento singolare della vita. Ma la nostra nazionale del 2021 ha vinto in un modo diverso, ha vinto come nessun’altra nazionale aveva mai vinto. Tre anni di programmazione, decine di atleti provati, giudicati e selezionati con criteri professionali e meritocratici, la ricerca di un gioco elegante ed efficace, un gioco concepito per vincere e addirittura per stupire. Questo ha permesso ad una squadra senza talenti assoluti di essere comunque gruppo solido e coeso, umanamente forgiato nell’amicizia, in estrema sintesi ‘invincibile’, come lo ha definito il quotidiano francese L’Equipe dopo la finale. La vittoria è arrivata dopo un cammino di annichilente superiorità: 3 anni di imbattibilità, 28 vittorie di cui le ultime 15 di fila, comprese le 7 nella fase finale dell’Euro. Una macchina bellica pronta ad ogni sfida, paura zero e applicazione costante. Tanto roba e ancora di più. Nello sport oggi l’Italia vince e convince in ogni settore: il nuoto (dove a Tokyo saremo tra i grandi), il basket (dove finalmente torniamo alle olimpiadi), il tennis, dove abbiamo una generazione di campioni mai così forte. Non è una coincidenza: un campione solo può nascere per caso, ma quando i talenti si contano a decine questo è frutto del prezioso lavoro di tecnici, federazioni e allenatori. E’ frutto del sistema, che, sotto il nostro cielo, nello sport, produce risultati di altissimo profilo. L’Italia, come identità nazionale, sta nel mezzo. C’è una nazione becera e fastidiosa, stretta attorno ai social dove vomita insulti, innesca polemiche politiche e non, cerca continuamente avversari, delegittima tutto, non sa trattenersi dall’insulto. Purtroppo, dopo la vittoria nell’Euro, i post balordi contro gli inglesi sono stati di pari numero rispetto a quelli gioiosi per il successo. Livori mal riposti da far ricordare gli antichi: ‘solo dei grandi è il rispetto per gli sconfitti’. Ma c’è anche l’Italia che, spesso in silenzio, sta facendo ripartire l’economia, c’è quella che si mette in coda disciplinatamente per un vaccino, c’è quella composta da decine di migliaia di volontari che hanno reso possibile la campagna vaccinale, c’è quella dei nostri medici e dell’esercito, c’è quella che riprende ad uscire con un sorriso, perché solo il dopo è meglio del prima. L’azzurro dello sport italiano è quello della nostra storia, dell’unità d’Italia e dei Savoia, del risorgimento e di tante vittorie che ci hanno fatto sentire grandi. Oggi quell’azzurro è un esempio. E noi ci stiamo avvicinando. Facciamolo con coraggio e senza timidezza, questo è il momento giusto.