EMOZIONI

L’anima della fotografia

Enrico Borla

Quando possiamo dire che una fotografia ha un’Anima? Quando questa ha il potere di scuoterci, di smuovere il nostro respiro, eccitando il nostro cuore.

Quando si introduce la parola Anima immediatamente il terreno sotto i nostri piedi si fa scivoloso, fragile come una faglia di dolomia pronta a franare. La parola Anima in Occidente si è guadagnata nei secoli una valenza spirituale, ma non bisogna dimenticare che nelle antiche culture l’anima era pensata come qualcosa di corporeo: il φρήν (diaframma) sede del pensiero e della contemplazione. Oppure lev (לב), il cuore umano per gli ebrei, ma anche l’emozione, il desiderio, la ragione, la decisione; addirittura il cuore di Dio. Tuttavia per secoli l’anima è stata disgiunta dal corpo fino a Husserl e poi a Binswanger che, nel 1946, stigmatizzò questo dualismo mente-corpo come “il cancro di ogni psicologia”. Per poter parlare dell’Anima della Fotografia dobbiamo allora seguire il monito greco ed ebraico. L’anima è emozione, dà emozioni che fluiscono attraverso il nostro corpo, anzi sono il nostro corpo. La stessa connessione col vento, fatta dai greci, è molto più corporea di quanto tutta prima non possa apparire. Il vento soffia, ci scuote, ci muove, anzi ci commuove: ossia ci muove insieme ad esso. Quando possiamo dire che una fotografia ha un’Anima? Quando questa ha il potere di scuoterci, di smuovere il nostro respiro, eccitando il nostro cuore, spingendoci alla contemplazione, al desiderio, all’impeto, fino a sfiorare il cuore di Dio. La fotografia è affare moderno, il dagherrotipo nacque alla fine negli anni 30 del XIX secolo: una semplice lastra ricoperta d’argento. Un’invenzione semplice, chimica, ma di una nitidezza e lucentezza sconvolgente per l’epoca. Il mondo del ritratto divenne alla portata di tutti, della memoria familiare e di quella collettiva, ma il dagherrotipo era ancora un unicum, da cui era impossibile ricavare delle copie. Solo successivamente nacquero attrezzi e tecniche più leggere, che permisero al fotografo di iniziare a riprodurre in modo infinito ciò che il suo occhio, mediato dalla camera fotografica, aveva creduto di vedere. L’anima della fotografia diviene allora cronaca, racconto, esperienza ulteriore, strumento di divulgazione e che, a differenza dei quadri, può raggiungere simultaneamente le pupille e le menti di migliaia di persone. La fotografia però è una cronaca che solo in alcuni casi diventa storia. Man mano che la tecnica si è evoluta e si è alleggerita, la fotografia ha coperto il globo. Dapprima per cronaca giornalistica, per curiosità geografica, infine per desiderio narcisistico del singolo. L’evoluzione della fotografia, partita dalla sperimentazione, poi passata alle grandi agenzie come Magnum o Reuters, è declinata sull’uso compulsivo del selfie, tracimando in una ossessione facilitata da una tecnica apparentemente alla portata di chiunque, ma in verità ingannevole. Come in tutte le ‘magie’ gestibili da apprendisti stregoni, il rischio si fa quasi inevitabile.

Fino a poco tempo fa, la saggezza antropologica, derisa come superstizione primitiva, avvertiva che la fotografia poteva rubare l’Anima. Scriveva Susan Sontag: “Fotografare le persone significa violarle, vedendole come non si vedono mai, avendo di loro una conoscenza che non potranno mai avere; trasforma le persone in oggetti che possono essere simbolicamente posseduti.”. Infatti i selfie, autoritratti del XXI secolo, hanno eluso l’Altro da sé. Nel passato il ritratto passava in genere attraverso la mediazione di un’altra persona e anche l’autoritratto era un lavoro fatto con pazienza e perizia, necessitava di tempo. Era un dono all’Altro, agli altri. Il selfie si esaurisce fra il primo e l’ultimo like, poi la sua memoria, indipendentemente dal contenuto, è perduta per sempre, così come l’Altro che è semplice pubblico per le istanze narcisistiche. Questa pletora di scatti, benché abbiano come oggetto il corpo, non hanno corpo. Così come shot raffinati, dove le regole dei terzi, delle linee guida, delle diagonali, del contrasto tra soggetto e sfondo solo raramente hanno un’anima. Solo grandi fotografi professionisti, e raramente pochi dilettanti illuminati, hanno il dono di sfiorare, di accarezzare il corpo dell’Altro dando Anima alla Fotografia. Alcune foto di Salgado, Capa, McCurry, Erwit, Abbas, Ghirri o Fontana non sono belle, semplicemente hanno odore, puzzano, irritano perché ruvide e a volte tagliano. In poche parole hanno corpo. Sfiorandole con gli occhi si percepiscono le curve, le crepe, le infiorescenze dello scatto. Il nostro corpo precipita in esse, ne viene violato, ne esce trasformato, a volte frantumato. Il palato viene titillato: aspro, dolce, amaro, salato si alternano in queste foto d’Anima ed alcune hanno anche il sapore di umami, o più semplicemente sanno di umano, cioè ci gettano nella nostra umanità, senza scrupoli o remore. Perché la lente fotografica e l’anima del fotografo devono essere spietati così come il nostro cuore, che batte, che accelera, che rallenta, che si fa aritmico e a volte si ferma, insensibile alla nostra volontà. L’Anima della fotografia è quanto più di lontano dallo spietato occhio di Apollo. La fotografia apollinea che cerca il bello, l’armonia, la misura, l’ordine raramente possiede Anima. La fotografia deve aprirsi all’incerto, alla trasformazione, all’ulteriore che l’occhio dello spettatore immagina e determina. L’Occhio del fotografo fissato sulla stampa, nella sua spietata voluttà di vedere e raccontare, deve poter diventare per l’Occhio dello spettatore odorosa acqua che umidisce il deserto della sua anima, fosse anche attraverso la Morte di un Miliziano. La Fotografia, quella che taglia come una resolza, ha innanzitutto la funzione terribile e salvifica di consegnarci a quell’Anima che già possediamo senza saperlo.