SCUOLA

LA STORIA CONTEMPORANEA, QUESTA SCONOSCIUTA

Gianni Oliva

Bisognerebbe avere un ministro dell’Istruzione abbastanza autorevole da introdurre una radicale ridefinizione della materia.

E’ mai possibile che qualsiasi studente universitario, di liceo o di scuola dell’obbligo abbia almeno “orecchiato” i nomi di Annibale, della battaglia di Canne o di Teodorico e navighi invece nel buio più completo quando si parla di Aldo Moro, di piazza Fontana, di “compromesso storico”? Il nostro sistema scolastico non ha molto in onore la storia (a livello di scuola secondaria, le ore settimanali previste sono significative solo nei licei), ma ha comunque più in onore la storia antica che la storia contemporanea: il passato più lontano si studia nel ciclo primario, si ripete in quello secondario inferiore e si ripercorre per la terza volta in quello secondario superiore; al passato recente, quello dell’Italia repubblicana, della Guerra Fredda, della globalizzazione, invece, non si arriva mai. Gli ultimi capitoli dei manuali di storia dell’ultimo anno sono sempre intonsi. Qualcuno si giustifica con la mancanza di tempo, qualcun altro con il rischio di “politicizzazione” insito nella trattazione di un passato troppo recente. False argomentazioni. Per quanto riguarda il tempo, dipende dalle scelte didattiche a monte: se non c’è tempo significa che si è scelto di non averlo e di marginalizzare la materia. Per quanto riguarda il pericolo di ideologizzazione, la storia (tutta, recente e antica) è figlia delle “domande che il presente pone al passato” (secondo una celebre definizione di Marc Bloch): dunque, se è “ideologizzata” lo è sempre, che si riferisca alle guerre puniche o al terrorismo degli anni Settanta. La rimozione della storia contemporanea non è limite che il nostro sistema scolastico abbia sempre avuto. Nell’Italia liberale i percorsi didattici si fondavano sulla celebrazione del Risorgimento: si parlava delle cinque giornate di Milano, della spedizione dei Mille, della breccia di Porta Pia, cioè di un passato recente di qualche decennio. Nell’Italia fascista il retroterra identitario era ancor più vicino: tutti i sussidiari insegnavano a conoscere le trincee del Carso, gli eroismi veri o presunti di Enrico Toti e degli arditi, il sacrificio di Cesare Battisti e Fabio Filzi, le campane di San Giusto e le imprese di D’Annunzio. Con la scuola dell’Italia repubblicana l’atteggiamento è mutato: stretta nelle contrapposizioni ideologiche della Guerra Fredda, la storia si è fermata al 1945 e alla lotta contro il nazismo, cioè all’ultimo atto “unitario” in cui erano schierati sullo stesso fronte Usa e Urss, democratici e comunisti.

Alla fine degli anni Novanta l’allora ministro dell’Istruzione Lugi Berlinguer ha stabilito che nell’ultimo anno di ogni ciclo si dovesse studiare la “storia del Novecento”. Si è trattato di un’iniziativa positiva che ha portato a reimpostare i libri di testo secondo la nuova ripartizione cronologica, ma che (salvo le solite, lodevoli eccezioni) non ha prodotto conseguenze significative sulla pratica didattica: per insegnare la “storia del Novecento” bisogna, prima di tutto, conoscerla! Quanti docenti in ruolo ordinario sono in grado di improvvisare non dico una lezione, ma anche solo 15 minuti di spiegazione sulla guerra di Corea? O sulla crisi di Suez del 1956? O sulla lotta di liberazione algerina? Nessuna accusa: i docenti sono figli della formazione ricevuta. Se la storia contemporanea si ferma al 1945, se non si studia la contemporaneità nei al liceo né all’Università, è ovvio avere docenti che non conoscono gli avvenimenti degli ultimi decenni. D’altra parte, non si tratta solo di limiti della didattica: è la nostra memoria collettiva ad essere deficitaria. La mia generazione ha vissuto gli anni del terrorismo nero e rosso ma non li ha né rielaborati, né trasmessi: semplicemente, li ha dimenticati. I limiti non si superano con le buone intenzioni o con i decreti, ma qualche sforzo andrebbe fatto, da programmi televisivi mirati a corsi di aggiornamento per docenti (seri, con tanto di verifiche finali agganciate agli scatti stipendiali e non solo con la fiscalizzazione del tempo impiegato). Soprattutto, bisognerebbe avere un ministro dell’Istruzione abbastanza autorevole da introdurre una radicale ridefinizione della materia: si stabilisca che storia meno recente si studia nel ciclo della scuola primaria e secondaria inferiore, mentre nella secondaria superiore si parte dalla Rivoluzione Francese e si riassume tutto ciò che è accaduto prima in grandi quadri d’insieme. Da storico, mi piange il cuore perché si coprirebbe di nebbia tanta parte del nostro patrimonio culturale: ma se non si può studiare tutto, se per forza bisogna “tagliare”, allora sacrifichiamo ciò che non è contemporaneità. Perché il presente è figlio del passato prossimo assai più che del passato remoto e per formare un cittadino consapevole Kennedy o Gorbaciov sono più importanti di Annibale e Teodorico….