DAL MONDO
ISLAM RADICALE, IL NEMICO ALLE PORTE
Eva Morletto da Parigi
Veronique e Thierry avevano assistito impotenti alla conversione e alla radicalizzazione di Quentin.
Viviamo su una scacchiera in bianco e nero, incapaci di muoverci da soli quando attorno si crea una nebbia grigia. Senza bussola, senza sestante, aspettiamo come orfani di burattinaio che le mani delle ideologie ci muovano avanti o indietro, di qua o di là. Oggi la Francia ha un problema, grande. Si chiama Islam radicale, e sono vent’anni che tutti, questo problema, lo affrontano male. «Di destra o di sinistra? Deciditi ». Come se un’appartenenza politica potesse essere una risposta. Nella sua famosa canzone, Giorgio Gaber si divertiva a identificare le cose di destra o di sinistra. In Francia e non solo, oggi criticare l’Islam radicale sembra essere un’attività di destra, di quella estrema, di quella che vede nel multiculturalismo un pericolo e non un’opportunità. Peccato. Peccato aver interpretato come una lotta fra civiltà quella che invece è una lotta tra civiltà e negazione della stessa. Peccato, in questa mia cara Francia che mi adotta da quindici anni, aver chiuso gli occhi, peccato aprirli ora e ritrovarsi su una corda tesa tra due piromani, quelli di una destra autoritaria benedetta da individui come Trump o Bolsonaro, e quelli dell’Islam radicale che sta prendendo in ostaggio la comunità musulmana, avvelenandone la gioventù col curaro del fanatismo, imbavagliandone gli individui che tentano di resistere. A me piace raccontare storie, da sempre. Forse perché da piccola me ne hanno raccontate troppo poche. Vi voglio raccontare la storia di Veronique Roy. L’ho intervistata qualche anno fa, e siamo diventate amiche. Non si può non essere amiche di Véronique Roy. Il suo sguardo azzurro è un invito e il suo sorriso franco è la promessa di una che non ti tradirà mai. Bionda e esile, appassionata di yoga, è impiegata presso la redazione di un magazine parigino dedicato al benessere. Suo marito Thierry è originario di Haiti, è musicista. È fiero di provenire dalla terra di Toussaint Louverture, il Napoleone nero, uno dei personaggi più maltrattati dalla storia, relegato quasi all’oblio quando invece fu l’artefice della prima repubblica nera libera al mondo. Ama le sue radici, la musica caraibica e il jazz. L’universo di questa famiglia è quanto di più lontano uno si possa immaginare rispetto al mondo oscurantista dell’Islam radicale. Eppure. Eppure il loro figlio Quentin si è fatto montare la testa da un amico, ha iniziato a frequentare la moschea di Sevran, da cui sono partiti una ventina di giovani per raggiungere le file dell’EI. Il famoso ‘amico’ ne ha indottrinati da solo una decina, con una strategia ben rodata, che prevedeva delle bugie architettate a tavolino per ingannare i genitori, per far credere che quella settimana trascorsa in un campo di addestramento in Siria fosse una trasferta di lavoro all’estero. Quentin lavorava come autista Uber. Quando se ne è andato per sempre, direzione il Medio oriente in fiamme, aveva telefonato ai genitori facendo loro credere che si sarebbe recato in Germania per acquistare un’auto nuova. Una settimana dopo è arrivata l’agghiacciante verità: Quentin era in Siria. I genitori hanno continuato a provare a farlo ragionare, a convincerlo a tornare, ma ormai era troppo tardi. Qualche mese dopo, la morte è arrivata via Whapp. Un jihadista francese ha scritto loro un messaggio: « Rallegratevi, vostro figlio è un martire ». Veronique e Thierry avevano assistito impotenti alla conversione e alla radicalizzazione di Quentin. Gesti poco significativi all’inizio, come un’improvvisa reticenza verso le carezze della madre, e poi via via la discesa nelle spire del fanatismo: Quentin non è entrato in chiesa durante i funerali della nonna, a cui era affezionatissimo, non ha voluto partecipare alla cena di Natale, non stringeva più la mano alle donne e si era licenziato dal suo lavoro presso Decathlon perché gli orari del negozio sportivo non gli permettevano di effettuare le cinque preghiere quotidiane. Ha così preferito un lavoro più indipendente, diventando autista Uber. « Non sapevamo come affrontare la situazione, eravamo totalmente impreparati, ci rendevamo conto che se ci fossimo arrabbiati, se gli avessimo impedito certi comportamenti o certe azioni, lo avremmo perso. Abbiamo provato in mille modi a farlo ragionare, con le buone e con le cattive, non è servito a niente ». Ancora oggi Véronique non si dà pace. Ancora oggi posta sui social la foto del suo « bambino », ad ogni compleanno mancato. « Oggi avresti venticinque anni, Quentin… » e tutti noi non possiamo che tacere ed essere esterrefatti nel vedere come le filiere di propaganda islamista possano aver praticato il lavaggio del cervello a un ragazzino modello, uno che andava bene a scuola, uno che cercava puntualmente di aiutare gli altri, uno che aveva organizzato una colletta nel suo liceo quando Haiti venne martoriata da un terremoto nel 2010. Perché Quentin? E di Quentin in Francia ce ne sono tremila. In quei tremila c’è di tutto. Bravi ragazzi come lui e delinquenti in erba. Ragazzine confuse dopo un insuccesso a scuola o ragazzi di periferia in cerca di identità e di uno scopo. C’è chi crede in un dio guerriero e chi semplicemente vuole diventare qualcuno. Ci sono quegli sbandati dei fratelli Clain, francesissimi e convertiti al salafismo, due fanatici regolarmente presi in giro dagli abitanti musulmani del loro quartiere, l’oggi famigerato Mirail di Tolosa. «Quelli sono matti! Des fous furieux!» dicevano gli anziani di origine algerina quando vedevano passare i due con le barbe lunghe e le mogli in burqa. Erano i matti del quartiere, gli eccentrici, in un certo senso gli scemi del villaggio. Oggi Mirail è uno dei bastioni dell’islamismo in Francia. I Clain sono stati capaci di fare migliaia di proseliti, grazie anche al contributo ideologico di Olivier Corel, l’emiro bianco di Tolosa, un francese convertito e jihadista della prima ora, oggi rifugiato nella regione bucolica dell’Ariège, ai confini con la Spagna. Alla fonte dell’ideologia radicale dell’emiro bianco si sono abbeverati centinaia di giovani francesi, fra questi un nome che preferiremmo dimenticare: Mohammed Merah. Il Merah che dopo aver freddato due giovani militari è penetrato in una scuola elementare ebraica a Tolosa e ha ucciso un padre di famiglia e i due bambini di tre e cinque anni che teneva per mano, per poi puntare l’arma contro Myriam, otto anni, tornata indietro nella fuga generale per recuperare le scarpette da danza cadute dalla cartella. Il Merah che fior fiore di editorialisti ed ‘esperti’, nei giorni successivi all’orrore, si ostinava a descrivere come un ‘lupo solitario’, un esaltato che aveva agito su un colpo di follia. Nessuno, a parte l’eccellente giornalista David Thomson di Radio France International, aveva osato prendere in conto l’idea di una rete ben definita, di un progetto, di una cancrena che stava contaminando quartieri interi, di un’influenza che aveva basi all’estero e le idee ben chiare di quel che avrebbe dovuto accadere in Francia. Mentre ci si ostinava a non vedere, mentre Thomson si faceva trattare da islamofobo e allarmista in tv, Latifa Ibn Ziaten, la mamma marocchina di uno dei militari uccisi da Merah, e il coraggioso Abdelghani Merah, fratello dell’assassino di Tolosa, decidevano di alzare la voce e allertare le autorità contro il pericolo della propaganda islamista nei quartieri e le derive della radicalizzazione. Abdelghani Merah ha camminato da solo per tutta la Francia nel 2017, per sensibilizzare le autorità e i media alla minaccia dell’idra islamista. La sua iniziativa gli ha procurato un buon numero di promesse di morte violenta e l’allontanamento di quella parte della sua famiglia che vede nell’assassino di bambini Mohammed un martire. Eppure Abdelghani non sta zitto e Latifa nemmeno.
E le voci dei musulmani laici preoccupati dai passi da gigante compiuti dall’Islam radicale finanziato dai Paesi del Golfo, le voci di Latifa e di Abdelghani ma anche del poeta francese di ordine algerina Kamel Bencheick, del grande scrittore tunisino Kamel Daoud, del giornalista e regista franco-algerino Mohammed Sifaoui, e molti altri, si fanno sentire sempre di più nel corso degli anni, sebbene non si voglia loro mai tendere la mano, né in Francia, né all’estero e tantomeno in Italia. Non interessano all’estrema destra, troppo impegnata a dire che TUTTI i musulmani sono fanatici e potenziali criminali. Non interessano alla sinistra, troppo impegnata a tessere lo storytelling del ‘buon musulmano’, confondendo legittima battaglia anti-razzista con negazionismo al contrario. I musulmani laici che denunciano la radicalizzazione si fanno linciare sul web, ricevono migliaia di minacce di morte, di fatwa come quella che colpì Salman Rushdie. Le reti legate ai Fratelli Musulmani e ai salafiti hanno invaso il dibattito pubblico e il tessuto associativo, sono penetrate nei sindacati di categoria, come quelli degli insegnanti che silenziano regolarmente i campanelli d’allarme innescati dai professori come Samuel Paty, nei sindacati studenteschi, nelle associazioni ricreative di quartiere, in tutto ciò che può influenzare la vita sociale. Alla testa dell’UNEF, uno dei sindacati studenteschi più potenti, nato dalle ceneri del maggio ’68 e dalle lotte femministe per la libertà della donna, c’è oggi Maryam Pougetoux, una francese convertita che indossa il niqab. Mohamed Sifaoui l’anno scorso ha dovuto assistere passivamente all’annullamento senza spiegazioni del suo seminario sulla radicalizzazione alla Sorbona. Sempre alla Sorbona e sempre l’anno scorso, è stata cancellata la rappresentazione teatrale delle ‘Supplici’ di Eschilo, perché alcuni attori, si erano tinti il viso di nero per interpretare gli egiziani e sono stati accusati di fare l’apologia del blackface. Nell’opinione pubblica più giovane prende forma un pericoloso mix di cancel culture e apologia dell’islamismo, interpretato come un baluardo dei deboli della terra contro il capitalismo sfrenato dell’occidente. In questo calderone ideologico spesso mescolato da buone intenzioni, l’islamismo agisce con astuzia e avanza pedine, trovandosi in una botte di ferro. Può contare sul pudore dei media e dei partiti politici moderati, terrorizzati all’idea di essere accusati di razzismo e stigmatizzazione non appena si nomina l’Islam, può contare sull’idiozia dell’estrema destra e delle sue accuse grossolane contro tutto ciò che è straniero, con cui perde credibilità da sola, e può contare sulla politica locale che- a destra come a sinistra – non si fa troppi scrupoli quando c’è da raccogliere voti. Fu così che nel settembre 2015, l’allora sindaco sarkozista di Pontoise, alla periferia di Parigi, disse sì al ‘Salon de la femme musulmane’, dove vennero invitati tre amabili imam a dibattere sul tema: ‘una donna disobbediente si può picchiare o no?’ . Se non fosse per l’intervento rumoroso delle sempre discrete Femen, non sapremmo nulla di quell’evento neanche oggi. Fu così che a inizio di quest’anno, un’adolescente di sedici anni chiamata Mila rispose in malo modo a un coetaneo che sui social la trattava da ‘sale pute francaise’ dopo un rifiuto alla sua ‘corte’. Mila inveisce contro il ragazzo islamico dicendo una parolaccia contro la sua religione. Il litigio tra i due ragazzi fa il giro del web e in qualche ora, Mila diventa il bersaglio di migliaia di minacce di morte, sgozzamento, violenza sessuale. Da parte di coetanei e di adulti. Mila viene tolta dalla scuola, viene prelevata dalla polizia nel suo liceo. Nessun istituto scolastico la vuole perché nessuno si sente in grado di garantire la sua protezione. Oggi Mila vive sotto scorta ed è finita in internato, presso un istituto privato tenuto segreto. La vita di una ragazzina è stata distrutta per aver detto una parolaccia. La politica in generale ha preso le distanze da Mila. Segolene Royal, icona del partito socialista e candidata alle presidenziali del 2007, ha addirittura accusato la ragazzina durante un’intervista televisiva, un po’ come se avesse ricevuto quel che meritava. Nessuno ha preso in considerazione che pur colpevole di aver pronunciato un insulto, Mila è una ragazzina di sedici anni, giuridicamente una bambina, e che si dovrebbe intervenire severamente sulle minacce di morte. Le voci in sua difesa sono state estremamente discrete, costellate di « sì, ma… », l’unico appoggio franco l’ha ricevuto…dall’estrema destra, a cui è stato lasciato campo libero sul tema dell’Islam radicale. Fu così che nel 2017, Sarah Halimi, una donna di 65 anni, ex medico, di religione ebraica, venne picchiata a sangue e poi defenestrata da un vicino di casa, anti-semita, che l’ha buttata giù dal balcone nel cuore del quartiere parigino di Belleville gridando in arabo: «Ho ucciso lo sheitan! (Il diavolo) ». L’omicidio è taciuto dai media per settimane, si finisce per parlarne sotto la pressione della comunità ebraica indignata dal silenzio della stampa e delle autorità. La comunità islamica di Francia è oggi esasperata, da un lato gli attentati e l’islamismo aumentano concretamente la possibilità di stigmatizzazione e di atti violenti contro di essa, dall’altro, fa fatica a gestire dall’interno, senza una compatta strategia di governo che non si appoggi solo sulla mera demagogia, i fenomeni di radicalizzazione che conquistano sempre più giovani. Oggi, secondo un sondaggio dell’Ifop pubblicato recentemente da Le Figaro, 75% dei giovani musulmani di Francia sotto i venticinque anni pensa che l’Islam venga prima dei valori repubblicani. Per quelli oltre i trentacinque anni la percentuale si inverte. Segno che il problema riguarda soprattutto le giovani generazioni, i cittadini del futuro. Il direttore scolastico Bernard Ravet e l’ex ispettore presso l’Education Nationale Jean Pierre Obin, hanno pubblicato volumi interi sul fenomeno della radicalizzazione a scuola. Impossibilità di trattare temi come la Shoah, antisemitismo banalizzato, scetticismo di fronte alle teorie dell’evoluzione, del darwinismo, dell’emancipazione femminile; rapporti complicati tra le insegnanti donne e gli allievi. Tutto questo è solo la punta dell’iceberg. Cosa puó covare sotto l’iceberg, lo abbiamo visto con l’omicidio barbaro di Samuel Paty. Nemmeno l’immagine macabra di una decapitazione ha placato gli animi. Durante l’omaggio reso nelle scuole lunedì scorso al professore ucciso, gli insegnanti francesi hanno denunciato 400 incidenti, il più comune fra questi, il rifiuto di onorare la memoria di chi aveva osato mostrare le caricature del profeta. Fenomeni denunciati persino dagli imam, come quelli di Nîmes o di Bordeaux, o come l’imam Chalgoumi di Drancy che tanto ha fatto per promuovere la convivenza pacifica tra musulmani e ebrei nelle banlieue, e oggi si ritrova sotto scorta armata. Finché non sarà chiaro che la lotta contro l’Islam radicale è una lotta di tutti, di qualsiasi uomo o donna, atei o appartenenti a qualsiasi credo, contro l’oscurantismo, e non è una lotta tra civiltà, non ne usciremo. Finché ci sarà chi vedrà in qualche vignetta satirica la responsabile di un fenomeno virulento cominciato decenni prima, non ne usciremo. «Da quando la ragione è definita come non ragionevolezza? Da quando le superstizioni devono essere risparmiate dagli attacchi della critica e della satira? Una religione non è una razza, è un’idea. Le idee forti accolgono volentieri le opinioni contrarie. Solo i deboli e i tiranni insultano i loro oppositori, e talvolta, fanno loro del male ». Lo diceva Salman Rushdie.