EMOZIONI

FOTOGRAFANDO IL MARE OVVERO LA PRATICA DELLA MEMORIA

Enrico Borla

L’onda oceanica, come il dolce flutto sulla riva sabbiosa produce forme infinite.

Talvolta rievoco ancora la mano che mi teneva, vedo una goletta nera attraccata al porto di Sanremo e ricordo le passeggiate serali quando mio padre mi raccontava della Folgore, la snella nave, del Corsaro Nero. Da questa reminiscenza di infanzia, avevo tre anni, nasce il mio amore per il mare. Ovviamente per uno psicoanalista c’è da gioire, la mano e la voce del padre, storia di eroi e di morte, odore di infanzia. Non nego che per i successivi 15 anni il mare è stato indissolubilmente legato alla memoria di mio padre: quando mi insegnò a nuotare, il primo paio di pinne e maschera, i giri in gommone, le vacanze in ancora remote isole del Mediterraneo. Tuttavia il mare è diventato a mano mano qualcosa di mio. Ho nuotato per ore, mi sono immerso fino ai 70 metri in qualche cengia cosparsa di gorgonie, l’ho solcato con il solo uso del vento e l’ho attraversato su battelli in lungo e in largo spingendomi fino alle latitudini artiche delle isole Svalbard, ma soprattutto ho tentato di catturarlo però senza mai riuscire a possederlo. Impresa da pazzi penserete, eppure è una delle cose più comuni. Chi davanti al mare non si incanta a guardarlo? Chi dotato di una macchina fotografica non ha cercato di immortalare il momento? Così scorci, tramonti, albe, si sono accumulati in foto ingiallite nelle nostre cantine, ed ora server misteriosi sono intasati da fotografie di turisti frettolosi incantati da quella vastità. Òinops pòntos, “mare che agli occhi ha il colore del vino” scriveva Omero. Mare dal colore incerto e indefinibile eppure sempre bramato, perché tutte le volte che scrutiamo la superfice che ci fa un po’ paura di “Quel mare scuro, e che si muove anche di notte, non sta fermo mai”, come diceva Paolo Conte, ne cerchiamo il riflesso. Lo ricerchiamo per potercene impadronire e portarcelo nella memoria, per poi rammemorarlo nelle grigie giornate di cemento che costellano la nostra vita di uomini inurbati. Ma il Mare è potente ed abile a celarsi nella sua vastità. Quante fotografie di Mare che non siano banali siamo riusciti a scattare? La poesia, celata nel suo cupo mugghiare, nel suo odore salso, nella sua falsa immobilità, nella sua potenza agitata, è cosa assai difficile da riprodurre. Come rappresentare il movimento puro in un istante congelato nell’eternità? Le immagini sono lì e tu le prendi semplicemente diceva Robert Capa, ma prendere l’infinito movimento è atto complesso. Parafrasando Marcel Proust si potrebbe dire che: “La fotografia acquista un po’ della dignità che le manca quando cessa di essere una riproduzione della realtà e ci mostra cose che non sono…” mai esistite.

Per fotografare il mare l’unica possibilità è cercare di fermare l’oggetto nascosto. Come le forme nelle nuvole anche le onde e gli spruzzi rivelano forme celate alla lentezza del nostro occhio. Non a caso il mare nei sogni diviene il simbolo dell’inconscio. Una grandezza inesauribile che occulta misteri: forme guizzanti, animali dai profili e colori strabilianti, foreste sommerse, deserti sconfinati, luci stroboscopiche, neri abissali. Come disse il Capitano Nemo: “Il mare è tutto! Copre i sette decimi del globo e il suo respiro è puro e salutare. È un deserto immenso in cui l’uomo mai è solo perché, accanto, tutto un mondo brulica. Il mare è veicolo d’una vita prodigiosa: è amore e moto, è, come un vostro poeta ha detto, l’infinito vivente. […] Qui regna pace infinita: il mare non è dei despoti. Alla superficie essi possono abusare ancora di diritti iniqui, combattersi, sbranarsi, portarvi gli orrori terrestri. Ma a pochi metri sott’acqua il loro potere cessa, la loro influenza non conta più, la loro forza s’annulla. Ah, vivete, vivete nel mare! Solo là si è indipendenti! Solo là non ho padroni! Solo là mi sento libero!”. Ecco la parola magica “libero”. Fotografare il mare è fotografare la libertà. Occorre cogliere nei millesimi dello scatto l’infinita invenzione. L’onda oceanica, come il dolce flutto sulla riva sabbiosa produce forme infinite. È questa interminabile polluzione di figure che si pone come sfida al fotografo del mare. Tentare di raccontare l’emozione di una vacanza provocata dall’effimera spuma è follia: come fotografi abbiamo il dovere di cercare di raccontare le forme nascoste, di evocare con uno strumento quello che la miseria del nostro corpo non riesce a fermare. La fotografia del mare deve opporsi a quel movimento che la nostra mente incessantemente opera cancellando la nostra vita, i nostri ricordi. Fotografare il mare è il tentativo di intrufolarsi nella preghiera esicastica che incessantemente le onde recitano. Fotografare il mare è richiamare da questa giaculatoria le immagini che sorgono dalla nostra memoria. È un esercizio mistico perché nelle eterne onde si nasconde il tutto come avrebbe detto Borges: “Chi ha scorto l’universo, non può pensare a un uomo, alle sue meschine gioie o sventure, anche se quell’uomo è lui…”. Nella loro infinita cadenza tutti i disegni, tutti i profili, tutte le immagini possibili sono incessantemente riprodotti, lasciando al nostro occhio la possibilità di ritrovarsi nella vastità della nostra memoria che credevamo per sempre cancellata. Questo è fotografare il mare! E, come scrisse Gibran:

“…L’alta marea cancellerà le mie orme,

E il vento soffierà via la spuma.

Ma il mare e la spiaggia rimarranno

Per sempre.”