POLITICA

I 100 ANNI DEL PCI, FU VERA GLORIA?

Tito Giraudo

dopo la destalinizzazione occorreva cambiare, i socialisti stavano dimostrando che era possibile un riformismo, sia pur cauto e compromissorio.

Occorre rassegnarsi, in occasione del centenario della scissione comunista di Livorno, leggeremo di tutto tra omissioni, falsificazioni storiche ed apologie, nel contesto di un Paese che ha dimenticato il PCI del dopo guerra, figuriamo quello del ‘21. Non sono uno storico tout court, ma vorrei fare il punto su quei fatti, cercando di tenere a bada la profonda antipatia che ho sempre nutrito della cultura comunista per averla frequentata; per questo mi limiterò di esporre i fatti.

Gramsci fondatore

In questi giorni ha iniziato la televisione con la santificazione: nella locandina dedicata agli eventi, appare l’immagine di Antonio Gramsci come se fosse stato il protagonista di quelle giornate; nella realtà storica, Gramsci e gli amici torinesi dell’Ordine Nuovo, in quel frangente erano poco più che spettatori, alquanto frastornati dalla débâcle dell’occupazione delle fabbriche conseguente al biennio rosso, che li aveva bollati quali avventuristi. In quel 1921 infatti, il vento rivoluzionario era mutato in quello reazionario di stampo nazionalfascista. Stabiliamo intanto una prima verità: il fondatore del Partito Comunista scaturito immediatamente dopo il congresso socialista di Livorno (che avvenne proprio in quella città), fu Amedeo Bordiga, un ingegnere nato ad Ercolano, di padre piemontese e madre toscana, capofila della corrente astensionista del PSI. Egli fu il vero promotore della scissione in quando dirigente nazionale, ruolo che Gramsci e Togliatti, per quanto fossero l’espressione del gruppo intellettuale torinese grazie al ruolo giocato nel biennio rosso e alle teorie operaiste, queste si in gran parte di Gramsci, non avevano. Fra gli appartenenti al gruppo torinese, solo Angelo Tasca era un dirigente del Partito, cosa che gli consentì di fondare il settimanale l’Ordine nuovo (1° maggio 1919-24 dicembre 1920), e soprattutto di inserire Gramsci e Togliatti come giornalisti dell’edizione torinese dell’Avanti e di poter ricavare reddito da questo.

Le ragioni della scissione:

Quella di Livorno fu la prima scissione importante nel partito socialista, diviso com’era fin dalla sua fondazione in riformisti e rivoluzionari, e che sino ad allora era riuscito a far convivere le due anime. C’erano state delle espulsioni in precedenza, come quella degli interventisti capitanati da Mussolini, che nel ‘14 era l’astro nascente del partito, cacciati così come erano stati espulsi nel congresso del ‘12 i riformisti Bissolati, Bonomi e Cabrini; in seguito, alla vigilia della Marcia su Roma del ’22, la stessa sorte toccò a Turati e alla corrente riformista. Purghe quindi, non scissioni. Se rianalizziamo quegli accadimenti oggi, la scissione sarebbe incomprensibile, dal momento che la maggioranza nel partito era saldamente nelle mani dei massimalisti. Tuttavia, come spesso accadde alla sinistra, non fu mai abbastanza estremista. La posizione astensionista di Bordiga e di alcuni membri a lui vicini nel ‘19 riguardava la partecipazione alle elezioni (che per altro videro il successo socialista) e alla nascita di un rivoluzionarismo che si ispirava all’Ottobre sovietico. Certa fu l’influenza di Lenin nella nascita del partito comunista, per poter affermare con forza la guida ideologica dell’Unione Sovietica sui Partiti fratelli, che stavano nascendo in Europa. La cosa risibile è che la stragrande maggioranza del partito Socialista anelava a “fare come in Russia”; tuttavia, ciò non si dimostrò sufficiente ai desiderata dell’URSS e quindi quella scissione si consumò.

Il ruolo di Gramsci nel nuovo partito.

Il gruppo torinese con Gramsci, Togliatti e lo stesso Tasca non tardò a ricoprire un ruolo importante nella segreteria di Bordiga; nel contempo, dopo la Marcia su Roma, Mussolini formò il suo primo Governo e quindi il Partito Fascista, che fino al delitto Matteotti, nonostante la rappresentanza parlamentare, visse in uno stato di semi clandestinità. Nel frattempo Lenin morì e gli successe Stalin. Le posizioni di Bordiga e di Tasca furono critiche nei confronti dei metodi staliniani, che si stava liberando della vecchia classe dirigente bolscevica, con dure epurazioni. Stalin voleva a livello internazionale partiti e dirigenti fedeli, anzi proni; Bordiga e Tasca compresero il pericolo stalinista, Gramsci e Togliatti dapprima restarono incerti, poi entrarono in conflitto con i due per le proprie prese di posizione filo staliniste; nel 24 Gramsci divenne il segretario del Partito, dopo aver messo in minoranza Bordiga: quest’ultimo e Tasca vennero  emarginati progressivamente sino all’espulsione, che avverrà nel ‘26. Gramsci “forse” fu il meno convinto dei due, tuttavia fino al suo arresto sarà fedele a Mosca; durante la prigionia fu Togliatti a rappresentare il PCI, e ben presto egli diviene l’astro nascente dell’internazionalismo comunista. Pur rischiando di andare contro corrente, ritengo che, senza nulla togliere alla sua grande intelligenza, Gramsci non possa essere considerato il grande ideologo e tantomeno il fondatore del Partito Comunista. Sarà solo dal confino e poi dal carcere, dove si rappacificherà con Bordiga, che espresse quelle posizioni critiche verso lo stalinismo, che gli sarebbero costate l’emarginazione tra gli stessi compagni comunisti imprigionati con lui.

Il partito di Togliatti

Togliatti nacque politicamente all’ombra del suo compagno Gramsci, fu certamente un fine intellettuale, non certo un uomo d’azione, tanto che nel ’22, sfuggito per miracolo alle squadracce fasciste, si eclissò per un lungo periodo; solo un richiamo dalle colonne dell’Unità lo fece tornare agli onori del mondo.

In seguito riuscì a sfuggire all’arresto perché si trova a Mosca.  Conoscendo Stalin, gli anni a Mosca furono di assoluta fedeltà ad un dittatore sempre più paranoico nei confronti di possibili dissidenti. Difficile dare giudizi umani (quello politico è ben altra cosa). Al suo posto, forse avrei fatto come lui poiché, fuori dalla protettiva Unione Sovietica, ammesso che  fosse riuscito di uscirne, la vita sarebbe stata assai problematica. Un saggio della sua fedeltà (e connivenza), lo diede in Spagna come inviato di Mosca nella guerra civile, avallando la liquidazione di tutti coloro che criticavano la strategia sovietica. Togliatti tornò in Italia nel ’43, momento in cui il centro-sud era stato liberato dagli alleati, non partecipò alla Resistenza ma si insidiò a Salerno e non v’è dubbio che fosse il proconsole di Stalin. Altri esponenti della dirigenza del PCI videro nella guerra civile il consolidamento del partito, che fino ad allora poteva contare su  un piccolo consenso nel Paese. La fedeltà di Togliatti durò oltre la destalinizzazione e arrivò persino a criticare la svolta Krusceviana. Si riscattò in parte con il testamento di Yalta e mi pare francamente poco. Va detto che nel mondo comunista italiano attuale si parla poco ormai di Togliatti, sostituito nel mito dall’inconsistente (politicamente) Berlinguer e naturalmente da un Gramsci assurto a nume tutelare, penso per la mancanza di altri padri fondatori autorevoli.

Le responsabilità sul fascismo

A mio parere non sono gravi come quelle socialiste solo perché gli avvenimenti riguardano soprattutto il periodo tra il ‘19 e il ‘21, periodo in cui i futuri comunisti furono solo comprimari anche se, come nel caso degli ordinovisti, ben partecipi. Dal ‘21 all’instaurazione della dittatura nel ‘25, il Partito Comunista non ebbe molte possibilità di fare danni; era un partitino di “duri e puri” con una forza elettorale limitata, per di più con i suoi principali dirigenti in semi clandestinità o in quel di Mosca. Fu il massimalismo in generale, di cui i futuri comunisti furono parte attiva, ad avere le maggiori responsabilità nell’ascesa del massimalista di vecchia data Mussolini. Tutti loro  predicavano la rivoluzione in un Paese dove non ne esistevano le condizioni e nel contempo non disdegnavano il comodo parlamentarismo. Contemporaneamente ci fu l’eclissi riformista, in parte anche causata dalla debolezza dei suoi dirigenti e in particolare di un Turati, grande intellettuale e onest’uomo, ma non altrettanto leader capace di guidare con polso fermo e decisioni rapide, quel riformismo socialista, l’unico in grado allora di dare alle sinistre prospettive realistiche (come nel Regno Unito). Se al congresso di Reggio Emilia Turati non avesse fatto una debole difesa di Bissolati, ma avesse tratto la conclusione che ormai in quel partito la via riformista era impraticabile, forse la storia del nostro Paese sarebbe stata altra. Ci proverà Saragat nel ‘48, impedendo la vittoria dello sciagurato “Fronte Popolare”, creando un partitino costretto alle origini socialiste ma orbitante nell’area democristiana. Nel ‘19 ci fu una grande affermazione socialista, accompagnata da una ancor più sorprendente affermazione dei cattolici popolari. Quella poteva essere l’ultima chance della sinistra di far vincere i buon senso, si avallarono invece le follie operaiste che scatenarono il biennio rosso e a ruota l’occupazione delle fabbriche, aprendo un’autostrada all’allora instabile Mussolini, che si affrettò a trasformare il suo Movimento Fascista nel “Partito dei produttori”. Certo, le responsabilità dell’avvento del fascismo furono molteplici, compreso il vezzo italiano per la demagogia, oltre a quello di salire sul carro del vincitore.

Il PCI, da Togliatti a Berlinguer

Che dire del PCI del dopo guerra, di Togliatti abbiamo parlato, e a tal proposito posso aggiungere che oggi c’è la tendenza non chiaramente espressa, di addebitare solo a lui lo stalinismo italiano. Nella realtà fu un’intera classe dirigente, compresi gli intellettuali di corte salvo poche eccezioni, ad avallare e difendere anche l’indifendibile: dalla rivolta cecoslovacca, passando da quella ancor più tragica ungherese, il Partito sostenne quello che oggi si può definire il colonialismo comunista. Certo, dopo la destalinizzazione occorreva cambiare, i socialisti stavano dimostrando che era possibile un riformismo, sia pur cauto e compromissorio; poteva aprirsi una stagione unitaria e invece il PCI preferì guardare alla DC, entrando in concorrenza con il PSI. Fece poi ancora di più, il nuovo simbolo comunista Enrico Berlinguer partorì la questione morale a senso unico, che con “mani pulite”, a babbo ormai scomparso, consentirà la liquidazione socialista. Nel frattempo, anche il PCI sarà liquidato dopo la caduta del muro di Berlino e dopo molte rifondazioni con le sigle più fantasiose; troverà rifugio in un PD, che nato per ribadire l’incontro con i Cattolici, non è stato altro che l’unione tra due cespugli sopravvissuti, con l’unico collante dell’antiberlusconismo viscerale e con a capo un boiardo di stato. Tutto questo, va detto, è lontano mille miglia dal PCI del ‘22 e meno male!