DUELLI

TRUMP E TWITTER, QUALE LIBERTA’

Cesare Parodi

“Non sono daccordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire”.

Ormai tutti sappiamo che non si tratta di una frase di Voltaire, ma in fondo è bello pensare che avrebbe potuto esserla. Sappiamo, invece, che la questione si pone oggi più che mai, se  consideriamo che da tempo non solo la comunicazione in sé vale almeno quanto il messaggio che contiene, ma che anzi l ‘medium’ condiziona e struttura ciò che si intende comunicare (insomma, Marshall Mc Luhan non è passato invano da queste parti). Di più: il contenitore, nell’epoca dello strapotere della telematica, determina la stessa ragione di esistere del messaggio. Donald Trump è stato ‘bandito’ da twitter, ossia dal – forse – più potente ed efficace veicolo di comunicazione immediata sulla scena (politica e non solo). Non c’è spazio qui per discutere sul merito delle sue affermazioni (ammesso che qualcuno possa condividerle) o sulla necessità che in rete (in qualsiasi modo) non avvenga l’istigazione o l’apologia di reati: ce lo dice la legge. E’ vietato, così come sappiamo che provider e gestori di social media, a fortiori, ove consapevoli, devono impedire la diffusione di messaggi dal contenuto illecito. Non è questo il punto. Non si tratta di valutare fatti, nelle loro implicazioni giuridiche, ma soggetti. Soggetti che indubbiamente devono rispondere della loro singole affermazioni e delle conseguente comunicazioni, rispetto ai quali altri soggetti ‘privati’- Twitter, appunto, nel caso di specie – possono decidere unilateralmente la ‘morte’ telematica, globale e irreversibile. Id est, senza mezzi termini, la morte civile e politica: perché politici e non solo vivono se e in quanto sono costantemente, ossessivamente ed efficacemente presenti on line, tra tutti e per tutti. Si tratta, di nuovo, di una storia vecchissima, che ricompare sotto mutate spoglie e in un’epoca differente, ma che nella sostanza non muta. Chi decide chi vive e chi muore, in nome di un’idea. Trump, in realtà, nella sua macroscopica e invadente modalità di essere presente, con le sue forzature, con il suo disprezzo per il compromesso e i mezzi termini è perfetto per ipotizzare una risposta al problema. Non ci piace, non ci garba, non è politicamente corretto? Trump si può cancellare. Facciamolo rinascere – se proprio vuole – altrove, in uno spazio più angusto, con un megafono con le batterie scariche. Tutti contenti. E domani a chi toccherà ? Come per Voltaire, anche Brecht non sarebbe il ‘padre’ di una breve composizione, che molti pensano sua, riferibile invece al pastore luterano e teologo tedesco Martin Niemöller. La conosciamo tutti, ma si può provare a declinare adeguandola al nostro presente.

Prima di tutto vennero a prendere  Trump. E fui contento e non devo neppure spiegare il perché. Poi vennero a prendere i sovranisti. E stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere i negazionisti,  e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere (metteteci gli appartenenti al partito che volete, non cambia) , ed io non dissi niente, perché non ero di quel partito. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare.”

Una morale? Per una volta, ci sta. Serve il coraggio di essere consapevoli, le idee sbagliate non si combattono negandone l’esistenza, ma ( soprattutto) conoscendole e confutandole, per quanto possibile. E gli uomini sbagliati – se ne esistono: pare di si – pure.

Alberto Mittone Avvocato Penalista in Torino

DUELLI

TRUMP E TWITTER, QUALE LIBERTA’

Alberto Mittone

Twitter, come altre piattaforme digitali, abusa del proprio potere comprimendo la libertà di espressione? La domanda è tornata d’attualità con la vicenda Trump: la notte tra il 5 e il 6 novembre, nel pieno del conteggio dei voti, il presidente una conferenza stampa affermava di aver vinto le elezioni «se si contano i voti legali». In questa situazione Twitter ha bloccato il messaggio staccando la spina in quanto «il presidente ha fatto affermazioni false, compresa quella che c’è stato un voto fraudolento. Non ci sono prove…non c’è stata una scintilla di verità in tutto quello che ha detto». Questa scelta è stata variamente criticata. Si è detto che il silenzio non viene raggiunto comunque perché escludere dai media una personalità con un consenso del genere, anche quando diffonde fatti falsi, non la condanna al silenzio. La circolazione continua su altri circuiti informativi, in particolare nelle ‘bolle mediatiche’ di cui parla Cass Sunstein, dove le voci accedono al ‘loro’ pubblico senza contraddittorio. Anzi, sventolando lo stigma del martirio, si rischia addirittura di aumentarne la popolarità. Altri sostengono che occorre «conoscere per deliberare», suggeriscono che l’accesso deve essere garantito a tutte le idee, anche le più irritanti, persino a quelle antidemocratiche e finanche a quelle che affondano nelle falsità conclamate. Occorre avere fiducia nella capacità delle persone di scegliere l’idea migliore, di espellere quella peggiore, di conoscere ogni passaggio, ogni accento del pensiero altrui e quindi, con ciò, di poterlo giudicare. Tra le molte voci è emersa, anche per veemenza ed iracondia assai distante dal dialogo filosofico, Cacciari, che ha esaltato il versante pubblico dell’informazione. “È inaudito come imprenditori privati possano controllare e decidere loro chi possa parlare alla gente e chi no. Doveva esserci un’autorità ovviamente terza, di carattere politico, che decide se qualche messaggio che circola in rete è osceno, come certamente sono quelli di Trump”. Le obiezioni, pur talune raffinate, trascurano però una parola decisiva, il mercato. Twitter, come altre piattaforme e canali informativi, non è un ‘medium’ pubblico strutturato, ma un mezzo privato che mette a disposizione una interconnessione tra utenti e pubblico. È una piazza privata il cui proprietario si riserva di far entrare chi vuole, purché rispetti le regole della sua casa. Qualche vicenda recente dovrebbe rammentarlo, pur nel settore TV e nell’editoria. Il 13 aprile del 2020, nel corso del telegiornale serale della 7, il direttore Mentana in diretta si occupa degli attacchi del premier Conte a Salvini e Meloni. Commenta che “in questa fase è giusto ascoltare le notizie di provvedimenti direttamente da chi sta guidando il Paese, ma non la polemica politica”. Ed aggiunge, criticando l’atteggiamento del premier, che “se l’avessimo saputo non avremmo mandato in onda quella parte”. Nessuna conseguenza. Più di recente, nel novembre 2020, Mattia Feltri, direttore di Huffington Post, non pubblica un blog inviato da Laura Boldrini che, intervenendo su una vicenda giudiziaria, criticava le affermazioni del padre del direttore, Vittorio. Nasceva un dibattito in cui Mattia Feltri rivendicava il suo diritto, quale direttore, di scegliere chi ospitare, “non essendo il giornale una buca delle lettere”. Segnalazione all’ordine dei giornalisti. Le piattaforme digitali hanno, in realtà, una ulteriore peculiarità rispetto agli altri mezzi privati di diffusione. Sono prodotti lanciati sul mercato da imprese che hanno il principale obiettivo, comune peraltro alle imprese, di ottenere profitti. Se il fine ultimo è vendere qualcosa, attirano con la seduzione delle immagini l’autostima trasferita dal numero dei follower. Nel contempo ‘vendono’ l’utente, perché se consentono l’accesso gratuitamente, è evidente che hanno altre risorse di guadagno non vivendo, come si di ce al bar, ‘d’aria’. E’ notorio che gli utilizzatori sono inseriti in data base poi rivenduto, poiché i social sono costruiti in modo da spingere alla ‘confessione mascherata’. Segnalano cosa si preferisce, dove si vive, quanti anni si contano, dove ci si reca in modo da fornire informazioni preziose alle aziende retrostanti. Di qualunque cosa si parli in Rete, sia arte,  moda, politica, sport, tempo libero, appare il mercato, lo shopping. La tecnologia sembra permettere di esprimersi come mai nel passato, ma nel contempo non esplicita il fine commerciale delle ‘corporation’ quando chiede di aprire i profili sui social.  Non si tratta di un risvolto spregevole in quanto nelle società a capitalismo avanzato si produce, si consuma, si lavora e si realizzano profitti ed esistono le imprese per realizzare profitti. Pur con questo esistono situazioni in cui viene assegnata una rilevanza pubblica, purché sussistano e concorrano alcune condizioni  cumulative. Innanzitutto il social’ deve costituire una infrastruttura essenziale, cioè senza alternative per l’accesso al servizio. Inoltre deve essere insostituibile ed essenziale, ed infine non devono sussistere ragioni che giustifichino il diniego all’accesso. Ritenere che nel frangente di Trump e di Twitter siano state presenti queste condizioni rasenta il ridicolo, avendo avuto il predetto ogni sbocco per comunicare. Si è trattato della scelta di un fornitore privato di sospendere il servizio discrezionalmente in quanto usato impropriamente, violando i termini di uso, perché incitava alla violenza. Il social non rappresenta un diritto fondamentale ponendosi nel campo dei liberi rapporti tra privati. Per banalizzare è come per la società di noleggio auto che, a fronte dell’utilizzo della stessa per una rapina, richiama la violazione delle clausole contrattuali e disabilita il veicolo. L’intervento è legittimo per l’uso illegittimo del mezzo e nessuno pensa di invocare la limitazione alla libertà di movimento. Nel mondo del diritto privato, e quindi nella negoziazione tra cittadino e piattaforme, esistono alcuni parametri decisivi, quali le condizioni di servizio, le pattuizioni private e le conseguenze per il loro abuso.  Del resto il pacchetto ‘ Digital services act’ proposto in questi mesi dalla Commissione Europea prevede all’art. 20 che “le piattaforme on line sospendano il servizio previo avviso ai destinatari del servizio che forniscono contenuti illegali”, perché in questo modo “si mina la fiducia e si ledono i diritti e gli interessi delle parti coinvolte”. Ragionare diversamente significherebbe adottare un’idea corrotta di democrazia, intendendola come uguaglianza consumistica, come principio livellatore in cui la libertà sui social viene intesa come diritto di scegliere e di acquistare merci ed anche l’informazione e quindi la politica. La democrazia diviene fittizia,  trasformando i cittadini in spettatori dotati di falsa coscienza: stare su Twitter a bisbigliare sui mali del mondo e credere di combattere una battaglia, mentre si consuma un prodotto commerciale. Le regole del mercato sono diverse da quelle della democrazia e questo rende necessario chiarire cosa siano i social, imprese commerciali lanciate sui mercati globali da corporation private, e distinguere la democrazia dal cinguettio su Twitter. E rende necessario anche uscire dalle ambiguità. Innanzitutto iniziando a far pagare agli imprenditori digitali tasse proporzionate agli introiti, nei paesi su cui sono attivi (praticamente il 91% del territorio del pianeta) e non soltanto nel loro paese d’origine. Ogni giorno vendono facendo invece credere che stanno concedendo la libertà e la democrazia di dire quanto aggrada. Non solo. Luciano Floridi ha spiegato come i social si collochino “in uno spazio né pubblico né privato: l’infosfera. Un luogo nuovo basato sulla circolazione delle informazioni, dove chi controlla le informazioni ha le chiavi di tutto”. Lo spazio digitale è globale, copre tutti gli Stati. Le ‘compagnie del digitale’ hanno il potere di regolare la vita dei privati e degli Stati, rendono servizi indispensabili e per questo condizionano la qualità dell’attività privata e pubblica,  esercitano funzioni come se fossero Stato. E’ stato osservato che sono come la settecentesca Compagnia Inglese delle indie Orientali, la quale contava su un esercito e una giustizia privati, esigeva le imposte, esercitava poteri sovrani sul suo territorio,  colonizzava nuovi mondi e ne dettava le regole. Dopo la scoperte dell’America sorse la domanda ‘Di chi è il mare?’, perché l’Oceano poteva essere percorso e così diventava una zona economicamente appetibile per trasportare merci e persone, soprattutto in terre dove c’erano grandi ricchezze. Nella stratosfera chi è il padrone ? La Commissione Europea, come ricordato, se ne sta occupando cercando di disciplinare questi soggetti con linee guida idonee a consentire una migliore circolazione all’interno ‘dell’infosfera’. Di fronte a questo nuovo spazio occorre essere preparati ed educati a viverci, bisogna imparare a muoversi. Diventa così decisivo l’uso consapevole del mezzo, con leggi che stabiliscano le condotte, con strumenti che ne disciplinino l’agire.  Vietare ma anche insegnare. Del resto Voltaire sosteneva che “non si può divenire virtuosi per legge”.

        

Cesare Parodi Procuratore Aggiunto presso la Procura della Repubblica di Torino