POLITICA

CHE FINE HA FATTO IL POPULISMO?

Massimo Rostagno

Appunto: che fine ha fatto il populismo?

La campagna elettorale in corso ci appare noiosa, scontata. Sembra già tutto scritto: dalla vittoria dello schieramento di destra alle buffonate comunicative di leader logori, che cercano di rinverdire con una pennellata social le pesanti rughe di un passato che non passa, meritevole soltanto di oblio. Poi il disincanto dei cittadini e la probabile riduzione della partecipazione al voto. La novità assoluta del voto a settembre non basta per dare tono ed energia al confronto in campo. Eppure i motivi di interesse non mancano. Uno dei più importanti è racchiuso in una domanda: che fine ha fatto il populismo? Il termine non è rigoroso, scientifico, ma identifica nel dibattito pubblico un tipo di impostazione politica basata su principi e metodi ormai riconoscibili da (quasi) tutti: semplificazione brutale della complessità, identificazione di slogan elementari, individuazione di un nemico da criminalizzare, negazione del valore di ogni competenza. Si fonda su una visione del mondo in cui si contrappongono élites rapaci e popolo vittima, e si rivolge agli istinti primordiali dell’elettorato da assecondare nelle sue parti peggiori, in totale assenza di responsabilità e di visione strategica degli interessi di fondo di un paese. Si incarna in leader che saltano a piè pari i corpi intermedi e le mediazioni rivolgendosi direttamente al popolo, con la pretesa di dirgli –finalmente – la verità Questi, citati alla rinfusa, alcuni elementi ormai consolidati e noti a tutti. Il cosiddetto populismo è stato un fenomeno culturale e mediatico prima ancora che politico che ha attraversato negli anni ‘10 di questo millennio le società aperte destando interesse e preoccupazione. Le ultime elezioni politiche italiane del 2018 ne hanno celebrato il trionfo. Il contesto internazionale era favorevole. Nel tragico 2016 l’elettorato inglese aveva scelto la Brexit e quello americano aveva mandato alla Casa bianca Donald Trump, il comandante in capo, il leader supremo di tutto il populismo internazionale. Sia l’una che l’altra consultazione erano state minate in modo decisivo dalla circolazione di fake news, di narrazioni fantasiose ma di enorme presa sull’elettorato meno avvertito. La post- verità si andava affermando e quello che era sembrato negli anni precedenti una stravagante, quasi divertente deriva culturale aveva mostrato fino in fondo il suo terribile potenziale politico. La visione populista poteva guadagnare la maggioranza, poteva diventare “potere”, addirittura farsi establishment. Fu quello, un brusco risveglio per chi credeva in una sostanziale ragionevolezza della storia e della politica. Sgomentò i neo illuministi convinti che il buon senso, quanto meno nella cabina elettorale, avrebbe finito per prevalere e i brividi forniti dai grandi demagoghi in campagna elettorale si sarebbero spenti di fronte alla scelta vera, compiuta nel segreto dell’urna. Non era così. In questo caso, quei demagoghi non solo avevano mostrato la loro consistenza, ma avevano proprio vinto. Da noi in Italia, gli interpreti di quella cultura erano l’organo ufficiale del populismo cospirazionista, il Movimento 5 stelle, e la Lega sovranista di Salvini. I temi della  campagna elettorale del 2018 ricalcavano quella impostazione: i migranti come male assoluto da contenere e da respingere, la demonizzazione dell’Europa e della UE vista come organizzazione di poteri forti nemici del popolo, la demonizzazione della classe dirigente, politica e non solo, indicata come corrotta, criminale e affamatrice delle classi popolari, la messa in discussione dell’Euro, l’irresponsabile promessa di anticipo pensionistico( Quota 100), il reddito di cittadinanza come strumento contro la disoccupazione. E poi, accanto a questo piatto forte, il saporito contorno: le scie chimiche, il partito di Bibbiano e l’accusa di pedofilia al Partito democratico, l’”uno vale uno” e la demolizione del valore di ogni competenza, lo squadrismo mediatico, il principio giustizialista dell’onestà brandito come arma contundente contro tutti gli altri e cosi via. Quella idea di mondo e di realtà in Italia sfondò: strabiliante vittoria del M5S che ottenne quasi il 33% dei voti, buona affermazione della Lega, Il risultato fu un Parlamento a maggioranza populista e la nascita del governo Conte 1 formato proprio dall’asse populista di Lega e M5S. Era il peggiore Parlamento nella storia della Repubblica che generava il peggior governo mai visto in anni recenti. Oggi, a distanza di quasi cinque anni, che fine ha fatto quella visione culturale, quell’approccio alle cose?

Appunto: che fine ha fatto il populismo?  Dà segno di sé in questi mesi di campagna elettorale? In fondo gli attori protagonisti, sia pure ammaccati, sono ancora tutti in scena: da Grillo a Di Maio; da Salvini a Di Battista. Il populismo è un’idra a molte teste: puoi tagliarne qualcuna, ma ne nascano altre, e non è certo una novità. Suoi rappresentanti chiamati con diverso nome esistevano nelle poleis greche come nell’antica Roma. I sofisti, che assecondavano i gusti della massa per conquistarne i favori, erano disprezzati da Platone, ma quella scorciatoia per ottenere consenso e proseliti appartiene alla natura dell’uomo e alla sua storia. Qui però parliamo di una stagione recentissima che ha sfondato nelle società occidentali avvalendosi di inediti e potentissimi strumenti di comunicazione. La sua potenza è stata tale da configurarsi come vero e proprio pericolo per la dinamica democratica con il suo carico di menzogne, odio e falsità. L’impressione è che in questa campagna elettorale il discorso populista continui ad esistere, ma abbia perso aggressività. I suoi decibel si sono fortemente ridotti, come se avesse messo la sordina. Certo, trova la sua espressione nelle promesse berlusconiane di innalzamento di tutte le pensioni a 1000 euro come nella richiesta salviniana di distribuire 30 miliardi alle famiglie contro il caro bollette sforando allegramente il deficit pubblico. Per non parlare del drastico abbassamento delle tasse senza alcuna preoccupazione di copertura. Si potrebbe continuare e negli ultimi giorni certamente ne sentiremo altre, ma in fondo sono classiche promesse elettorali, disgiunte da una concezione più strutturata e organica come avveniva nel 2018. Allora eravamo in fase di populismo crescente. Oggi, forse, la luna del populismo è entrata nella sua fase calante. Che cosa è successo? Al di là dei percorsi personali, è difficile pensare ad una autentica maturazione dei protagonisti del populismo nostrano. Piuttosto è avvenuto altro. Nel corso degli ultimi anni, la cultura populista è stata depotenziata dal suo peggiore avversario: la realtà. Il conto che il mondo reale ci ha presentato è stato così alto e duro da lasciare completamente disarmati i populismi e le loro narrazioni, abili nel cavalcare i problemi, ma completamente inetti nell’ affrontarli. La pandemia prima e le conseguenze di una feroce guerra nel cuore dell’Europa poi li hanno sbugiardati, quanto meno di fronte a larghe fasce di popolazione.  Per sconfiggere i populisti basta lasciarli governare, diceva qualcuno. Misurarsi con le contraddizioni delle situazioni reali e la complessità delle cose ne squaderna infatti l’incapacità, la totale incompetenza, sciogliendo come neve al sole la loro retorica. Il depotenziamento delle leadership populiste ha avuto proprio per questo una dimensione internazionale, esattamente come la loro ascesa: da Trump a Bolsonaro fino a Boris Johnson. Nello specifico italiano, poi, l’esperienza del governo Draghi è stata significativa nello spostare blocchi di opinione pubblica, ha rappresentato politicamente l’incarnazione del pragmatismo antipopulista, tarato come è stato fin dalla nascita sui problemi concreti e sulla loro soluzione. E ha rilanciato il grande valore della competenza e dell’autorevolezza riconosciuta, che del populismo sono nemici giurati. Siamo di fronte ad un salto di qualità culturale del paese, ad una maturazione nella percezione dei cittadini? Chi considera la arrendevolezza alla demagogia come una spia di decadimento può tirare un sospiro di sollievo? Molto presto per dirlo e per sapere se queste impressioni avranno un riscontro oggettivo nella realtà. C’è tuttavia da sperarlo. Pur sapendo che il populismo non è mai definitivamente sconfitto, metterlo in condizione di non nuocere  sarebbe certamente un passo in avanti.