EDITORIALE

ELEZIONI 2022, L’ELOGIO DELLA MATITA

Guido Barosio

Possiamo essere fieri, o perlomeno lieti, di questi nomi? .

Giorgio Gaber nel 1976 cantava, con perfidi sorrisi ammiccanti, l’eleganza e la pulizia del momento elettorale: cielo sereno (non piove mai durante le elezioni…), silenzio, pulizia per la strada, e, arrivati al seggio, una bellissima matita, marroncina e perfettamente appuntita. Era il rassicurante rito propiziatorio per la nostra scelta. Una scelta che, in modo altrettanto rassicurante, premiava con regolarità la Democrazia Cristiana, lesta nel precedere regolarmente il PCI. Oggi di quel mondo ci è rimasta soltanto la matita, prima che qualche trabiccolo elettronico faccia sparire pure quella. Le elezioni di questo settembre 2022 hanno persino mandato in soffitta il calendario, con una data inedita che sa di affrettato, ma anche di necessario, perché tutta l’Europa guarda a noi, pronta a giudicarci, con la sola eccezione dei francesi, forse vergognosamente affranti da un governo senza maggioranza e da un presidente che c’è ma in fondo nessuno vorrebbe. L’Italia del nuovo millennio sembra essere lontana anni luce da quella che – per quarant’anni o giù di lì – rappresentava lo scenario più stabile d’Europa. Il rasoio di Tangentopoli ha creato una soluzione di continuità dove gli eredi si sono avvicendati senza offrire continuità, credibilità e reale autorevolezza. Possiamo essere fieri, o perlomeno lieti, di questi nomi? Berlusconi, Dini, Prodi, D’Alema, Amato, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni… e poi le ultime esperienze tecniche di Conte e Draghi. Uno scivolare di figure via via sempre ‘meno’ elette, più o meno super partes, più trasversali, quasi che il rito della matita fosse solo più un ricordo, il simbolo in grafite di un’altra Italia. Così il 25 settembre può anche piovere, l’autunno della nostra democrazia. E dire che, alzando un momento lo sguardo dalla nostra cabina elettorale (la stessa della prima repubblica, uno ‘scatolo’ tramandato da generazioni), possiamo vedere una guerra, orami una partita a scacchi, che non molla la presa, un PNRR tutto da interpretare, una crisi energetica che ha appena iniziato a mordere, un’Europa forse da riscrivere, un virus che vorremmo dimenticare ma di certo non è ancora svanito. Tante decisioni da prendere che vanno ad impattare con programmi fumose, contorti, sovente velleitari. Queste sono anche le prime elezioni, da molti anni a questa parte, che propongono un vincitore annunciato, il centro destra, e un premier in pectore: Giorgia Meloni. Molto meno accreditata l’ipotesi B: un altro governo tecnico, come sempre roba da acrobati, ma mai da escludere sotto il nostro cielo. Negli ultimi duelli si ascolta e si legge una litigiosità da ballatoio. Dove la novità di un presidente del consiglio donna viene bollata da Enrico Letta come un evento contrario, perché la Meloni farà politiche ‘antifemministe’, quindi meglio un uomo che faccia scelte ‘femministe’. Giuro, ho dovuto leggere due volte per crederci.

Per non parlare del coro antifascista che si leva postando sui social le leggi razziali del 1938, del pericolo per la democrazia, del dramma costituito dalla fiammella tricolore nel logo di Fratelli d’Italia. Ora vorrei ricordare che la maggior parte degli italiani, che sono spesso migliori di chi li governa, di un possibile pericolo fascista se ne frega. Il Duce salì al potere 100 anni fa, che non sono proprio un battito di ciglia. Quindi storia, non più cronaca. Sventolare antichi vessilli, demonizzare gli avversari oltre ogni logica, ha sempre portato alla sinistra una iella proverbiale, scagliando proverbiali boomerang, regalando al nemico la patente della vittima. Lezioni evidenti – ricordate le crocifissioni di Berlusconi? – e mai metabolizzate. A parer mio (e non sono certo un veggente) il ‘cartello Meloni’ vincerà con ampio margine. L’Italia non scomparirà tra i flutti e gli elettori giudicheranno il suo cammino dai fatti. Dando la propria pagella ad un governo popolare nella sua affermazione, diverso (finalmente? Vedremo) dalle alchimie da tardo impero che lo hanno preceduto. E sarà soluzione di continuità. Vedremo se gli strilli virtuali o reali abbasseranno il volume, vedremo (ma ho tanti dubbi) se la politica nazionale si preparerà ad un esame di maturità. La politica è studio, preparazione, non quello scimmiottare che abbiamo visto con i nostri leader impegnati su Tik Tok. Quello è il social ‘dei giovani’, bene, parliamoci come fossero dei deficienti, con battute e mossettine che offendono, facendo anche ridere, i fruitori, assai più maturi di chi tenta di imbonirli. In attesa del 25 settembre – che mi impegno a raccontarvi da queste righe – faccio ancora una riflessione sulla mancanza più evidente dei nostri leader. Agli italiani mancano figure che sappiano proporre speranze, sogni, messaggi comprensibili di orgoglio e fierezza. Negli Stati Uniti i grandi presidenti hanno sempre messo avanti, prima di ogni ragionamento, la tanto amata parola ‘hope’. Il politico deve essere innanzitutto propugnatore di una ideologia, che offra visioni e conforto. Il pragmatismo arriva dopo, ci deve essere ma arriva dopo. Da noi si vive con l’impressione di un confronto tra una destra – che si esalta per sconti fiscali e respingimenti dei disperati – e una sinistra triste, pessimista, con il complesso del primo della classe che non riesce ad imporre le proprie lezioncine. Gli elettori, gli italiani, vogliono questo? La risposta è nel progressivo astensionismo, nell’allontanamento da chi non abbiamo voglia di scegliere. Temo che saranno loro i veri vincitori, forse tanti da rappresentare più di un monito. Dopo il 25 settembre che nessuno si dimentichi di ascoltarli.