LIBRI NEL CUORE

ARPINO E LE ‘LETTERE SCONTROSE’

Paolo Verri

Arpino fu uno stretto collaboratore di Mario Pannunzio agli esordi del Mondo; mi sento un po’ preoccupato di parlarne qui.

 “La civiltà di massa ci ha costretti a compiti immensi: vogliamo sembrare tutti ben educati, ben vestiti, sciolti, esperti del vivere. Vogliamo risultare ricchi in vacanza, cittadini navigati in città, e ci travestiamo continuamente da bagnini, da cacciatori, da miliardari, da seduttori, da uomini di mondo, a seconda che ci si trovi al mare o in campagna. La nostra vita di massa ci obbliga a una continua recita. Abbiamo sposato mille parti in commedia e vogliamo recitarle tutte, mandiamo a memoria ogni giorno miliardi di battute. Dovremmo dire, come ‘mea culpa’: che fatica facciamo noi poveracci per sembrare signori”.  Così scrive Giovanni Arpino il 22 settembre del 1965, in una delle sue migliori ‘Lettere scontrose’, ogni settimana pubblicate sul Tempo, l’equivalente italiano del mitico Life. La lettera da cui è tratta la citazione è indirizzata ad un vero protagonista del Novecento culturale: Jacques Tati. Arpino fu uno stretto collaboratore di Mario Pannunzio agli esordi del Mondo; mi sento un po’ preoccupato di parlarne qui. Ma in questi giorni di secondo lockdown, le sue ‘Lettere scontrose’, da qualche mese ripubblicate grazie a Fabio Stassi nella collana minimum classics delle edizioni minimum fax, mi hanno tenuto grande compagnia. Aveva trentasette anni, e aveva appena vinto il Premio Strega con ‘L’ombra delle colline’, uno dei suoi romanzi più autobiografici. Sono 52 pezzi uno più eccezionale dell’altro: il primo indirizzato all’allora presidente del consiglio Amintore Fanfani, l’ultimo a Guido Piovene, l’amico che l’aveva indirizzato a scrivere di sport, a cui propone – dalle pagine di un settimanale ad alta tiratura! – di creare un nuovo giornale, a bassissima tiratura e ad altissima qualità. In mezzo, Gassman e Totò – il primo si arrabbiò, il secondo si congratulò; e ancora, Monica Vitti e Claudia Cardinale, Juliette Greco e Jeanne Moreau, Aldo Moro e Giuseppe Saragat, Brigitte Bardot e Sophia Loren – a cui si appella affinché paghi le tasse che deve, lei che in quel momento guadagnava tre miliardi di lire l’anno… Aveva trentasette anni, e non era ancora quello che ha descritto su questo stesso spazio digitale Darwin Pastorin, ovvero uno scrittore imprestato alla narrazione sportiva per farla diventare, almeno in Italia, davvero grande. Era immerso, pregno di letteratura, e di etica della narrazione. Si batteva come un leone per dare un senso all’azione culturale, alla capacità di formare attraverso il magistero della scrittura. Ecco perché aveva lasciato così grande vuoto la sua scomparsa nel dicembre del 1987, ad appena sessant’anni. Nel 1989, Bruno Quaranta, che l’aveva conosciuto al Giornale di Montanelli, a poco più di un anno dalla morte, pubblicò per la SEI ‘Stile Arpino’; per presentarlo al Salone del Libro di Torino, venne invitata la vedova, la signora Caterina – fortunato, c’ero anch’io, come felpino, ovvero come accompagnatore di entrambi in un negozio di Torino dove Arpino era molto amato e rispettato. In grande anticipo, ci trovammo nella casa a pochi passi dal Fante, davanti al Politecnico, dove gli Arpino abitavano, e Bruno Quaranta con grande commozione donò la copia del libro alla signora Caterina. Sembrava di stare in un film di Antonioni, i colori erano in parte molto accesi, in parte fanè, come se corrispondessero alla forza delle passioni dell’uomo Arpino e alla malinconia che i presenti provavano avendolo perso per sempre. Avevo da poco letto ‘La suora giovane’, che era stata donata a tutti i visitatori del Primo Salone del Libro grazie ad una iniziativa senza precedenti della Confesercenti; ne ho una copia qui accanto a me, con le prefazioni dell’allora sindaco Maria Magnani Noya e del presidente nazionale di Confesercenti, Gian Luigi Bonino. Una edizione Garzanti fuori commercio, in copertina un dipinto di Gigi Chessa, ‘La finestra sul Po’, datato 1929, quando Arpino aveva appena due anni. Ripenso ora alla sua incredibile maturità, alla capacità sin da giovanissimo e per quarant’anni di parlarci con stile preciso e denso insieme, e mi aiutano a descrivere le emozioni che Arpino ci detta le parole contenute in un ‘lettera’ a Juliette Greco: “Noi quasi quarantenni non siamo cresciuti con regolarità fino a diventare veri uomini e vere donne: siamo rimasti bambini avvizziti, malinconici, acidi e teneri e ambigui, abbiamo conservato una tale dose di infantilismo da sentirci una mattina sedicenni incompresi e pieni di voglie e la mattina dopo nonagenari carichi di acciacchi e senza più uno stimolo autentico”.

La verve che ne fa un narratore diretto e coraggioso, tanto nell’espressione orale quanto per iscritto, presto cambierà tono. Dirà proprio Bruno Quaranta: “Si immalinconirà, via via, Giovanni Arpino, diventando ‘sempre più difficile stringere in mano questo mondo: è liquido’ ”. Liquido: un termine che entrerà nella sociologia urbana almeno trent’anni dopo, grazie agli studi e alle intuizioni di Zygmunt Bauman, e che a Arpino era già chiaro allora. Come gli era già palese la relazione tra territori e turismo. Leggiamo insieme cosa scrive, sempre nel 1965, all’allora Ministro del Turismo, Achille Corona: “E intanto i tredici milioni di turisti stranieri seguitano ad arrivare. Certo: coi miliardi di gente che abitano il mondo, una minuscola percentuale desidererà pur sempre vedere una volta nella vita Firenze e Siena, Napoli e Venezia. Quei tredici milioni non ci mancheranno mai: se non saranno svedesi saranno arabi, e poi indiani, e poi giapponesi… Ma questo non è turismo nobile, è solo il modo di trasformare il nostro paese in una gigantesca stazione di smistamento, in un va-e-vieni caotico e carnevalesco”. Sembra che Arpino, di matrice contadina come quasi tutti gli scrittori della sua epoca, comprenda bene che la quantità non basta, che bisogna generare qualità, profondità di relazioni; è amareggiato dall’italiano furbo, e si appassiona ad artisti che lo sanno mettere alla berlina; fra gli altri, scrive a Dario Fo: “Hai scelto l’onda contraria alle donne, i cavalier, l’armi, gli amori ariosteschi, e vai frugando tra gli incunaboli per scoprire l’aneddoto che ti serve di più, ti cacci in mezzo ai libri per estrar-re e manipolare anime di signori e di regine, di popolani e di vescovi. Reagisci così all’elementarità della storia scolastica per dire al tuo spettatore: guarda che roba, guarda come eravamo, come siamo rimasti… Burattino senza fili, scompigli le tue trame perché non ti sembrano mai abbastanza folte, mai sufficientemente stimolanti e allusive, mai troppo ricche di collusioni con la nostra età, e di ammonimenti amari e farseschi”. Chissà se Edoardo Bennato avesse presente la definizione di ‘burattino senza fili’ quando decise di intitolare così il suo album del 1977; certo, anche ad Arpino – ancora una volta in anticipo! – pare che il mondo sia fatto da congregazioni di ‘dotti, medici e sapienti’ che impediscono sempre di più al singolo di vivere una vita autonoma, e quindi piena, non affossata dalle convenzioni né dagli stereotipi. Ritorno all’ultima delle 52 lettere, e vi invito caldamente a leggerle tutte, ringraziando ancora Fabio Stassi per averle raccolte in un unico, ricco volume. “Caro Guido Piovene,in questi bui giorni di novembre, mentre tu viaggi tra Argentina e Perù attraverso chissà quali climi, temperature, altitudini e costumi, io tiro avanti la mia carretta acquattato in una cittadina piemontese a lavorare, tra gente che conosco a memoria, che mi conosce, e di cui so a distanza vizi e virtù. È una delle tante cittadine italiane, socialiste e bigotte, anarchiche e cristiane, dove più o meno tutti sanno consolarsi con tartufi a quarantamila lire al chilo e con enormi torte alla panna, di domenica. (…).Hai tu un’idea di come finirà la nostra storia? Devo confessarti che non vedo chiaro in tutto quanto va accadendo. Sono morte le grandi speranze, morte e seppellite per ingenuità, e ognuno ormai se ne sta abbarbicato alla sua Seicento, al suo frigorifero, come il morfoinomane s’aggrappa alla droga che lo regge e lo consuma.  Ha vinto la piccola diplomazia, hanno vinto i cervelli dei pianificatori per uso esterno, hanno vinto i gruppi, le sigle, gli enti, i trust, le associazioni, le mafie, le coproduzioni, le alleanze sacre e no, le cooperative, i battaglioni di tutti coloro che si spalleggiano temendo di star soli. Ha perso l’uomo, la fantasia dell’uomo, la risorsa e l’animo dell’uomo. Chi è rimasto a parte, in conto proprio, è già un oggetto da museo, un ribelle, un escluso, un matto”.