STORIA

A QUARANT’ANNI DALLA STRAGE DI BOLOGNA

Gianni Oliva

L’accusa si fonda su quattro “gravi, precisi e concordanti indizi”

2 agosto 1980, alle 10.25 un boato sconvolge la stazione ferroviaria di Bologna: una valigetta con un ordigno a tempo (23 kg di esplosivo, una miscela di tritolo, T4 e nitroglicerina), scoppia causando il crollo dell’ala ovest dell’edificio, mentre l’onda d’urto investe il treno Adria Express, fermo sul primo binario, e distrugge 30 metri di pensilina. Il 2 agosto è sabato, fine settimana del grande esodo: in un’epoca in cui le ferie sono ancora concentrate in quel mese e tutte le fabbriche chiudono insieme i battenti, ci sono milioni di italiani che si spostano da nord a sud o raggiungono la costa romagnola, e Bologna è lo snodo fondamentale dei transiti nazionali. L’attentato ha colpito nel punto più sensibile e le conseguenze sono drammatiche, non comparabili a quelle (pure tremende) del 1969 in piazza Fontana o del 1974 a Brescia e sul treno “Italicus”: 85 morti, con i corpi ricomposti a fatica, oltre 200 feriti, alcuni con mutilazioni permanenti. Le indagini si indirizzano subito verso la pista del terrorismo di destra (lo dichiara due giorni dopo in Senato il presidente del Consiglio Francesco Cossiga) e la giustizia segue il suo corso. Senza dar conto dei vari passaggi processuali, limitiamo il riferimento alla sentenza definitiva della Cassazione del 1995: gli esecutori materiali sono individuati in tre neofascisti militanti dei Nar (Nuclei armati rivoluzionari), Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, i primi due condannati all’ergastolo per strage, l’ultimo (all’epoca dei fatti ancora minorenne) a 30 anni. L’accusa si fonda su quattro “gravi, precisi e concordanti indizi”, come scritto nella sentenza della Cassazione: le dichiarazioni rese da Massimo Sperti, un pregiudicato per reati comuni simpatizzante per l’estrema destra, secondo il quale Fioravanti e Mambro, due giorni dopo la strage, gli chiesero con urgenza documenti falsi, timorosi di essere stati riconosciuti mentre depositavano la valigetta; l’omicidio pochi giorni dopo di Francesco Mangiameli, un professore palermitano di estrema destra assassinato da Fioravanti, per far tacere un testimone pericoloso a conoscenza di circostanze compromettenti; la scarsa attendibilità dell’alibi offerto dagli imputati per il giorno dell’attentato; l’anticipazione della strage fatta da uno degli imputati, Ciavardini, in colloqui confidenziali. Il paradosso della strage di Bologna è che la magistratura ha raggiunto una verità definitiva (a differenza di quanto accaduto per le altre stragi), ma la natura problematica dell’attentato è tale, da renderlo irrisolto sul piano della verità storica: nessuna certezza sui mandanti, nessuna certezza sul movente, nessuna certezza sul contesto strategico entro il quale si inserisce. Il panorama interno e internazionale del 1980 è infatti molto diverso da quello del 1969 o del 1974: la tensione sociale è calata, gli equilibri politici non si stanno più spostando verso sinistra,

il rapporto organico tra la Dc e il Psi di Craxi ha relegato all’opposizione un Pci in crisi elettorale e strategica, dalla metà degli anni Settanta gli apparati pubblici hanno assunto un orientamento decisamente antifascista, tale da scoraggiare in partenza qualsiasi volontà golpista; sul piano internazionale, inoltre, i regimi autoritari della Grecia, della Spagna e del Portogallo sono caduti lasciando il posto a nuove istituzioni democratiche e non sono più un riferimento e un rifugio per i neofascisti; il blocco sovietico, nemico e incubo della destra radicale, sta iniziando a sgretolarsi, mentre in Cina sono finiti Mao e la rivoluzione culturale, e i regimi comunisti dell’Indocina si sono irrigiditi e burocratizzati senza prospettive di espansione. Perché dunque una bomba tanto micidiale nella sua miscela esplosiva, posizionata da mani esperte a ridosso di un muro portante, per aumentarne l’effetto distruttivo? Per quale progetto eversivo seminare panico e morte e attaccare lo Stato? La sentenza di condanna riconduce l’attentato alla logica di una lotta armata autoreferenziale nella sua ferocia: “nelle intenzioni dei suoi autori la strage non costituiva un fatto di sangue a sé stante, ma un evento dalle conseguenze straordinarie, che nel panorama della destra eversiva avrebbe comportato importanti effetti sul piano della diffusione della lotta armata”. In questo modo i giudici si ricollegano ad un documento rinvenuto nel carcere di Nuoro e redatto da Mario Tuti, il fondatore del Fronte nazionale rivoluzionario, in carcere dal 1975 per attività terroristica, in cui si legge: “il terrorismo, sia indiscriminato sia contro obiettivi ben individuati, può essere indicato per scatenare l’offensiva contro le forze del regime, contando sull’impressione prodotta sia sul nemico sia sulle forze almeno in parte a noi favorevoli. E’ indubbio che si avrà automaticamente un estendersi della lotta armata, favorita anche dalla prevedibile recrudescenza della repressione”. Al di là delle farneticazioni ideologiche, è difficile trovare un movente convincente: potrebbe trattarsi di una strategia per ricomporre le diverse anime dell’estremismo eversivo, oppure di una lotta interna al terrorismo neofascista per farne ricadere la responsabilità sullo spontaneismo armato e liquidarlo politicamente. O forse c’è a monte una regìa ancora da scoprire: le recenti indiscrezioni relative ad un finanziamento di 5 milioni di dollari, fatto al gruppo neofascista di Fioravanti e Mambro da Licio Gelli qualche settimana prima della strage, apre scenari nuovi e inquietanti, anche se tutto è da dimostrare. Certo è che la verità storica, mai come nel caso della strage di Bologna, è lontana dalla verità giudiziaria.