LIBRI NEL CUORE
‘NOI’, LIBRO DI PASSAGGIO E NON DA PASSEGGIO
Paolo Verri
Non amavo i libri di fantascienza, non consideravo tale quelli di Verne e non avevo ancora compreso la grandezza di Asimov.
E’ evidente che per un un bibliofilo non c’è niente di più entusiasmante di aver a propria disposizione una biblioteca. Una biblioteca grande e organizzata, ordinata, profumata, senza polvere da rimuovere. Non sono mai stato un topo da biblioteca, inteso come qualcuno che non ami stare fuori, camminare, discutere – anzi. Ma i libri sono stati la mia unica grande passione, una costante che non so bene ereditato da chi, visto che in famiglia nessuno ha studiato più delle medie né avuto i soldi per comprare libri e collezionarli. Il mio primo raggruppamento di volumi nasce da una lettura sfrenata e compulsiva di Emilio Salgari; mio nonno me ne regalava uno alla settimana, e pur facendo l’ebanista (sarebbe più appropriato scrivere ‘l minusier, in piemontese), mi chiedeva in cambio una scheda di lettura, un breve ma efficace riassunto. Se non finivo il precedente, e se non scrivevo almeno trenta righe di riassunto e parziale commento, niente nuovo libro. Solo La capanna dello zio Tom e Incompreso mi hanno regalato emozioni più grandi non solo e non tanto del ciclo dei Pirati della Malesia, o del Corsaro Nero, Corsaro Rosso e Corsaro Verde, ma delle grandi fughe in Africa e nelle Isole dell’Oceano Indiano, dove sono ambientati i meravigliosi La favorita del Madhi e I pescatori di perle. Tutti editi da Vallardi, rilegati in cartone telato marrone scuro con sovraccoperta coloratissima e inserti disegnati all’interno, erano indistruttibili anche ai tentativi del gatto di affilarsi le unghie o di mia sorella più piccola di farne uso per dare un contrafforte stabile alla casa di Barbie. Poco tempo dopo, i romanzi di Pavese, il Mestiere di vivere, le Poesie del disamore; per il Natale della prima media ebbi in dono da una mia adorabile zia acquisita, tutti i volumi riediti da Einaudi nei Coralli, bianco panna, che segnarono la mia voglia di scoprire Torino camminandola, come ci aveva consigliato di fare la professoressa di italiano Maria Luisa Bar, elegante nel suo cappotto rosso, proprietaria di una rossa DAF, e appassionata lettrice di Jane Jacobs. Arrivò il liceo e l’estate ci regalò il Nome della rosa e Diceria dell’untore. Non compravo i biglietti del bus e usavo le poche lire per cercare di arricchire la mia non pingue collezione con qualche altro Einaudi di scarsa fortuna, un Ceram perduto, una Ginzburg dimenticata. Poi, conobbi Marco e insieme a lui, suo papà Vittorio. Famiglia borghese, tutti laureati, origini in quel di Monte Bracco, sopra Barge. La mamma, Cristina, professoressa al Politecnico. Il papà di Marco e il mio erano i più alti di tutta la palestra dove ci riunimmo il primo giorno di liceo, al Cavour, in corso Tassoni. Era l’autunno del 1980. Mi ero battuto per andare al liceo, al classico in particolare. I miei erano sospettosi del ragazzino che leggeva e leggeva e desiderava fare il critico letterario. “Andrà ad insegnare” – mormoravano la sera davanti a Carosello.
Sono trascorsi secoli, anche se sono pochi anni; Marco e suo papà mi fecero innamorare della grande letteratura russa e francese, inglese e americana, e la loro casa di via Palmieri 40 era anche la mia. Non smetterò mai di ringraziarli. Il più del tempo lo si trascorreva nella camera di Marco dove, fingendo di studiare, giocavamo a basket tutto il pomeriggio utilizzando come canestro un regolamentare mini fustino Finish e una ben chioccia palletta rossa che arrivava dal negozio Bambi, in cambio di scarpe che oggi non esiteremmo a definire quasi ortopediche. Perdevo sempre, fino a quando non arrivava il terzo della compagnia, Gigi, ex compagno delle medie di Marco e che ora andava al Galfer (affettuoso nomignolo per lo scientifico Galileo Ferraris, dove la professoressa Nuvoli li stendeva di paura, quanto a noi incuteva terrore l’ossuta, acuta, risaputa Peretti). La sfida assumeva toni epici, ogni giorno era una finale, e mentre i due si giocavano l’oro, io mi trasferivo nell’adiacente salone dove in bell’ordine erano disposti i Meridiani Mondadori, le Meduse verdi in cui potevo selezionare un Hemingway non scontato come Di là dal fiume e tra gli alberi oppure La scala Rizzoli, dove, accanto agli italiani contemporanei, c’erano Guareschi e Soldati. Non molti e soprattutto saggi gli Einaudi, sparuta la collezione di Feltrinelli, ma stava in mezzo a quel mazzo scarso, un volume esile, azzurrino, un tascabile insieme ad altri cinque o sei che attirò la mia attenzione.
Noi, si intitolava. Una specie di Golem in copertina. Un racconto sull’amicizia? Cercavo qualcosa che mettesse in luce il sentimento più importante, la mia voglia di condividere tutto, sempre e comunque, con qualcun altro, di non tenere mai nulla per me, niente che fosse una proprietà o una idea. Solo le ragazze, quelle di condividerle ne avrei fatto a meno – ma capitava, e non era solo sciagura. Lessi le prime righe: “Di qui a 120 giorni verrà ultimata la costruzione dell’Integrale. Si approssima il grande, storico momento in cui il primo Integrale si librerà nello spazio dell’universo. Mille anni fa i vostri eroici avi assoggettarono al potere dello Stato Unico l’intero globo terrestre. Vi apprestate a un’impresa ancor più gloriosa: grazie all’Integrale di vetro, elettrico e incendiario, integrerete l’infinita equazione dell’universo. Vi apprestate ad assoggettare al nobile giogo della ragione esseri ignoti che dimorano su altri pianeti e, forse, ancora si trovano allo stato brado di libertà. Se costoro non comprenderanno che rechiamo loro la felicità matematicamente infallibile, nostro dovere è: costringerli a essere felici. Ma, prima delle armi, sperimenteremo la parola”. Potere alla parola. Anno 1983. Non amavo i libri di fantascienza, non consideravo tale quelli di Verne e non avevo ancora compreso la grandezza di Asimov. Ma quell’incipit mi aveva colpito, e andai avanti. Il libro era minimo, per me abituato a leggere duecento pagine al giorno, l’avrei finito magari prima che di là finalmente i Lakers avessero sconfitto i Celtics, nonostante la superba prova difensiva di Kevin McHale. Andai a verificare a che punto fosse il match, e fui rimbalzato da un potente afrore. La finestra non si poteva mica aprire, la palletta sarebbe certamente caduta in piazza Benefica. E la palletta era sacra (mica pensate fossimo preoccupati dei passanti?). Stava per tramontare il sole e dovevo tornare a casa. Marco non mi avrebbe mai fatto prendere un libro senza l’autorizzazione di suo padre, ma suo padre non sarebbe tornato in tempo, in tempo per me che dovevo con urgenza tornare a casa. Era un tascabile di dimensioni minime, una sottiletta. Potevano così poche pagine contenere un messaggio così importante? Scritto tra il 1917 e il 1919, pubblicato per la prima volta nel 1920, Noi avrebbe influenzato Orwell e Huxley, arrivando fino al Truffaut di Fahreneit 491. Mica lo sapevo, allora, che D-530 si sarebbe innamorato di I-330, che il suo lavoro per costruire una astronave trasparente che intorno al 3.000 dopo Cristo, mille anni dopo lo Stato Unico terrestre, avrebbe diffuso il verbo del Benefattore nel resto dell’Universo, sarebbe stato interrotto proprio da quella donna, una spia di un gruppo di ribelli antagonisti una dittatura onnipotente. In meno di cento pagine, ecco la sceneggiatura di Avatar mescolata ad Hunger Games, ma soprattutto una critica potente allo stalinismo di là da venire. Stavo per giocarmi l’amicizia e la credibilità ma la sete di lettura era troppo forte. Mentre la sfida era al top agonistico, aprii appena la porta comunicando che dovevo correre a casa, che mi aspettavano per cena e che dovevo ancora passare a comprare il pane. Né Bird né Magic mi degnarono di un saluto. Più difficile fu due giorni dopo separarmi dal libro, e rimetterlo dov’era senza farmi notare. Da allora lo cercai su bancarelle e in librerie remainder, finché non mi apparve in un mattino di maggio al Salone del Libro una bellissima edizione di un altro libro di Zamjatin, L’inondazione, pubblicato in una brossura impreziosita da una patina marmorizzata da Biblioteca del Vascello. Perché una storia russa, e perché non il suo capolavoro? Noi fu un libro a lungo dimenticato, in URSS volutamente mai pubblicato, fino al 1988, alle soglie della caduta del Muro di Berlino. Finalmente, dal 2007 esiste una nuova edizione italiana, che racconta anche la storia dell’autore, ingegnere precoce, novello Gogol, e poi esiliato a Parigi dove morì in miseria prima della seconda guerra mondiale. E’ da qualche giorno che Noi, tascabili Feltrinelli, anno 1963 – poco più anziano di me! – è arrivato nella mia biblioteca. Bentornato, amore fugace ed indimenticabile.