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PAOLO ROSSI RESTERÀ IL NOSTRO PABLITO, L’EROE DEL MUNDIAL

Darwin Pastorin

Bearzot non ne vuole sapere: lui è pronto a scommettere sul riscatto del suo Pablito.

Paolo Rossi diventò, nei giorni abbaglianti del Mundial di Spagna del 1982, un nostro figlio, un nostro fratello, un nostro amico, così caro e così vero. Fu lui, quel centravanti dal sorriso come un raggio di sole, a farci sentire al centro dell’universo e del cuore, italiani orgogliosi, uniti e felici, nel pieno di un delirio di passioni, colori e sentimenti. Che storia, che avventura, quella del ragazzo chiamato Pablito in quella Coppa del Mondo! Rileggiamola insieme. Viene convocato da Enzo Bearzot, il Vecio narrato da Giovanni Arpino, dopo una ingiusta squalifica per lo scandalo del calcio scommesse; gioca solo tre partite, con un gol, nella Juventus, ma all’allenatore basta e avanza: sa di poter contare sull’attaccante che così bene si era comportato al mondiale d’Argentina del ’78. Lascia a casa Pruzzo, il bomber, per ridare fiducia a Paolo: ed è una pioggia di critiche, un oceano di polemiche. Ma Bearzot è un friulano scolpito nella roccia, un “hombre vertical”: non vuole sentire ragioni. Pablito cerca la sua rivincita, vuole allontanare, una volta per sempre, tutti i fantasmi e tutte le malinconie. Ma in terra spagnola le cose, inizialmente, non vanno per il verso giusto. L’Italia, nel girone di Vigo, rimedia tre faticosi pareggi, contro Polonia, Perù e Camerun. Pablito non segna, fatica, e parecchio. La destinazione successiva è Barcellona, contro Argentina e Brasile, giganti del football, non solo sudamericano. Sembra la cronaca di una eliminazione annunciata. I rancori sono vicenda quotidiana, molti giornalisti puntano le penne, come frecce avvelenate, contro quel gruppo. E gli azzurri decidono di fare il silenzio stampa. Parleranno solo, in occasione delle conferenze ufficiali, il Vecio e il capitano Dino Zoff. Il clima è di fuoco e di furore. Ma qualcosa cambia. L’Argentina di Diego Armando Maradona viene battuta 2-1, con le reti di Tardelli e Cabrini, anche il Brasile elimina gli storici rivali, 3-1. E, così, il 5 luglio 1982, allo stadio Sarrià, alla lucente nazionale verdeoro, di Júnior e Zico, di Sócrates e Falcão, basta un pari, per via della migliore differenza gol, per agguantare la semifinale. Alla vigilia, molti critici chiedono di mettere Altobelli al posto di Rossi, incapace di segnare, quasi un fantasma vagolante per il campo. Ma Bearzot non ne vuole sapere: lui è pronto a scommettere sul riscatto del suo Pablito.

E in quel pomeriggio di caldo e bellezza, ecco giungere il miracolo, la buona novella, il passaggio dal buio al miele. Ecco il match destinato a diventare leggenda, epica, mito. L’Italia supera i brasiliani per 3-2, Paolo Rossi mette a segno una tripletta. È la grande svolta, della sua vita e della nostra nazionale. Mi dirà Pablito: “Quel 5 luglio sono rinato per la seconda volta. Quel 5 luglio abbandonai paura e malinconia”. E non è finita lì. Rossi segna due gol alla Polonia e, nella finale, è lui, con un guizzo, ad aprire le danze del 3-1 alla Germania Ovest. Il nostro presidente Sandro Pertini, in tribuna d’onore, è contento come un bambino. Paolo è tutto in quella fotografia, dopo la sua rete ai tedeschi: le braccia al cielo, il sorriso che è un lampo di allegria. Capocannoniere del Mundial, poi Pallone d’Oro, diventa uno dei personaggi più famosi a livello internazionale. E tutti noi italiani, in ogni anfratto, in ogni contrada, diventiamo “paolorossi”, scritto e detto così, tutto attaccato. Eppure, con tutto quel carico di gloria, Pablito resta un ragazzo semplice e umile, mai un gesto arrogante, mai un atto di presunzione. E di una disponibilità assoluta, con tutti. Nel 1983, io e Marco Bernardini chiamiamo Paolo per invitarlo a partecipare alla nostra trasmissione “Tutti casa, stadio e…”, in onda sull’emittente piemontese Videogruppo. Mezz’ora da registrare alla mostra di Calder, parlando poco o niente di pallone. Rossi dice sì, con entusiasmo. In quell’83 Pablito è ancora uno degli uomini più popolari. Lo conoscono da New York a Dakar, da Oslo a Lima. Pablito si presenta puntuale all’appuntamento alla Gran Madre. Ma è pallido, con gli occhi lucidi. “Sono stato male tutta la notte, per via di una indigestione – sussurra -: ma non potevo mancare a questo incontro”. L’intervista va benissimo: Paolo è sincero, spontaneo, senza maschere o reticenze. Come compenso, non chiede niente. Nemmeno una lira: “Ho la vostra stila e la vostra amicizia”. Mi sono commosso nel vedere i funerali nella sua Vicenza, con i suoi amici e compagni, soprattutto quelli del Mundial, portare il feretro a spalla. Grazie Paolo, grazie: sempre e per sempre. Non ti dimenticheremo mai. Sarai per sempre il nostro fantastico asso. Il centravanti capace di qualsiasi meraviglia. E la nostra meraviglia eri tu, Pablito.