DUELLI
PANDEMIA E GIUSTIZIA
Cesare Parodi
“In fin dei conti, non temete i momenti difficili. Il meglio scaturisce da li” ha scritto in tempi non sospetti Rita Levi Montalcini. Un pensiero espressivo di grande coraggio e di altrettanta lucidità, che è giusto provare a trasporre nelle tante piccole o grandi riflessioni che questo momento ci impone. Approfittare del tempo e delle necessità non solo per trovare il modo di affrontare le difficoltà, ma per ripensare un intero sistema, con modifiche di ampio respiro o anche solo intervenendo su aspetti mirati, un passo alla volta. E ripensare il tutto tenendo conto che il futuro giuridico e tecnologico che ci aspetta potrà e dovrà essere espressivo di una maggiore efficienza, di un migliore utilizzo delle risorse, di un migliore impiego delle forze a disposizione in funzione non solo del “prodotto giustizia” finale, ma anche delle esigenze di sicurezza sanitaria degli utenti e degli operatori del settore. Tutti, indistintamente. In questa prospettiva, da un “male” globale, estremo e pervasivo come non mai, l’atteggiamento corretto potrebbe essere non solo quello “difensivo” o conservativo, quanto quello propositivo e innovativo. Il mondo giudiziario- come tutti o forse più di altri- è stato travolto nelle sue forme, nei suoi tempi, nella prassi dei rapporti da questo ondata. Se in ambito civilistico da tempo il processo telematico era una realtà concreta, tangibile e per molti aspetti metabolizzata, nella prospettiva penale poco o nulla era stato avviato. Molti desideri, forti aspettative ma concretamente davvero poco. Il penale – chi ne conosce gli “interpreti” lo sa bene- non vive di carte e documenti, ma di sguardi, emozioni , pause, enfasi e silenzi. Non troverete sul manuali di procedura penale tutto questo, ma potrà essere confermato dagli operatori che tutti i giorni si confrontano, da differenti punti di vista. Il giudice vuole vedere in volto l’imputato, il difensore vuole cogliere nello sguardo del giudice la dinamica della decisione che lo stesso, interiormente, sta elaborando. E il pubblico ministero dalla parole del testimone trae elementi di conforto sull’attendibilità di tale soggetto. Ora, certo, sappiamo che gli atti di indagine e le udienze telematiche hanno preso il posto in molto casi di quelli tradizionali. Sappiamo che il deposito degli atti per via telematica- e in prospettiva delle denunce- potrà sostituirsi al contato diretto presso le cancellerie o gli uffici di polizia giudiziaria. Siamo pronti a tutto questo ? Abbiamo davvero una possibilità di scegliere ? E se e quando potremo tornare a una situazione sanitaria assimilabile a quella precedente rispetto alla Pandemia, cosa potremo e vorremo salvare delle metodiche, degli strumenti, dell’approccio che ci siamo imposti e con il quale oggi conviviamo? Probabilmente molto. La storia non è un profilo lineare, a volte procede per strappi, accelerazioni, sconvolgimenti e revisioni globali. E la società, la cultura e dunque anche il mondo del diritto non possono pretendere di non adeguarsi. Possiamo salvare la nostra anima, ma per ottenere questo, il corpo e la mente devono imparare ad adeguarsi. E senza neppure troppi rimpianti: I piccoli indifesi mammiferi, in fondo, adattandosi, sono sopravvissuti agli schianti che hanno annientato di dinosauri.
DUELLI
PANDEMIA E GIUSTIZIA
Alberto Mittone
La pandemia ha fatto irruzione nella collettività con la violenza dei dolori, delle lacrime, dei tracolli, ha scombussolato le vite, ha imposto nuovi regolamenti nelle relazioni. Nella sostanza ha aperto una fase di ‘crisi’ nella sua accezione più ampia, non solo negativa ma anche positiva. Ha imposto ed impone di affrontare la rottura del “paradigma” dominante, del ‘ come vivere e lavorare, con le sue regole ed i suoi adattamenti rispetto alla tradizione. Il paradigma si è rotto perché si sono smarriti i vecchi attori sul palcoscenico della vita, si sono appannate le consuetudini aggreganti del vivere collettivo, negli stadi come nei ristoranti, nelle scuole come nei cinema, consuetudini risultate vittoriose spesso nella lotta contro la solitudine. In particolare il paradigma si è rotto perché la tecnologia si è imposta come risolutore di problemi travolgendo gli assestamenti precedenti. Da sempre la tecnologia si è presentata come agevolatrice, più raramente come travolgente scombussolando il modo di vivere e di lavorare. La storia ricorda l’opposizione violenta contro il telefono perché parlare senza vedere era un ibrido inaccettabile, la letteratura descrive la polemica stizzita tra due giganti, Benjamin ed Adorno, sulla musica non dal vivo, per quest’ultimo inaccettabile interferenza sulla purezza del suono. E il mondo della giustizia è stato ed è uno scenario esemplare. Esso, come altri ambienti, ha una diffidenza vischiosa rispetto alle novità, vive nei simboli e dei riti ereditati dal passato, cerca sicurezza nella presenza fisica. E’ un destino consolidati dei singoli e della collettività lodare latinamente il passato e guardare di sbieco le novità, soprattutto quelle tecnologiche, oggetti misteriosi e difficili da maneggiare. Così per l’istituzione giudiziaria i cui attori, giudici ed avvocati, traggono dal culto del passato, dal come si amministra la giustizia, la loro forza. Di qui una dose quasi genetica di conservatorismo cui si unisce un buon coefficiente di corporativismo che conduce a ritenere l’innovazione da ripudiare, a ricordare il ‘ si è sempre fatto così, a mitizzare una memoria paralizzante. D’altra parte è un mondo strano, unico nel suo genere, che misura il rendimento su risultati statistici e mai su risultati economici, mai sui bilanci di quanto costano i processi, mai sulle conseguenze patrimoniali delle scelte giudiziarie. Tanto per rimanere sull’attualità, molto si discute sul processo recente all’ENI imbastito dalla procura di Milano e conclusosi dopo 8 anni con l’assolutoria, ma nessuna voce si azzarda a chiedere quanto sia costato alla comunità e se quei costi avrebbero potuto essere evitati. E’ il tema urticante e silenziato delle economie della giustizia penale, che un tempo un apprezzato sociologo, Pio Marconi provò ad analizzare con un saggio poco gradito e passato inosservato (Le economie della giustizia penale Marsilio, 1984). Ora la tecnologia, con la pandemia, ha messo di fronte il mondo della giustizia ad una sfida basata su piattaforme digitali, su processi da remoto, su collegamenti telematici. Ha messo in crisi l’udienza pubblica, già affossata dall’assenza di pubblico, ha destrutturato l’oralità, già smarrita con la diffusione degli scritti, ha evidenziato l’inutilità della presenza delle parti in svariati momenti processuali. Si apre un discorso inconsueto con molteplici sfaccettature anche per l’avvocato che dovrà affrontare i nuovi volti della modernità. Si dovrà confrontare con una professionalità diversa dal passato che vede scolorare antichi aspetti iconografici, quale ad esempio l’arte oratoria, per privilegiare nuove attenzioni, quale ad esempio all’informatica. Una cosa sembra assodata: respingere il nuovo perché confligge con il passato è battaglia destinata alla sconfitta. Occorre laicamente analizzare la situazione, talora resistere come per la presenza fisica nel processo in aula per gravi reati, talora accettare nuove regole non disturbanti. Del resto il progresso tecnico – scientifico, come osservava Bobbio, è “irreversibile e irresistibile”. Il problema è gestirlo.