SPORT

ORA DIEGUITO MARADONA PALLEGGIA NEL MITO E NELLA NOSTALGIA

Darwin Pastorin

Il suo sinistro era Epica e musica, era mare e terra, era pane e sorgente.

Ancora non riesco a crederci: Diego Armando Maradona è morto. Dieguito non c’è più, se ne è andato a 60 anni, lasciandoci più soli: noi che lo abbiamo amato per la sua fantasia, la sua bellezza e la sua arte sul prato verde. Lui, che ha saputo trasformare un pallone in uno scrigno di bellezza e meraviglie. Ha commesso dei peccati, come molti di noi, pagandoli sulla sua pelle: ma ha saputo regalare a milioni e milioni di persone la felicità. Avete visto le immagini da Buenos Aires e da Napoli nel giorno del suo funerale? C’erano due popoli, solidali e smarriti, a rendergli omaggio, idealmente uniti da quel genio che aveva saputo raccontare, sul campo, le storie più belle, possibili e impossibili: segnando con la “mano de Dios” contro l’Inghilterra, al Mundial messicano del 1986, per vendicare le Malvinas, e, nella stessa partita, travolgendo i difensori inglesi come birilli nella rete più bella di tutti i tempi, con una punizione (contro la Juventus) da non crederci, da centrocampo, da terra, in rovesciata, con un guizzo superbo. Il suo sinistro era Epica e musica, era mare e terra, era pane e sorgente. Si divertiva a palleggiare con un’arancia e c’è chi assicura si averlo visto, uno due tre, dominare una goccia d’acqua in un pomeriggio di pioggia al campo di allenamento di Soccavo. Ora Dieguito gioca tra le nuvole, è nel mito e nel rimpianto (anche per tutte le gozzaniane cose che potevano essere e non sono state), nelle lacrime di chi, ancora adesso, non riesce a darsi pace, per quel beniamino così amato, per quel poster appeso in camera, per quel fratello così immenso e così fragile, per quel campione che ha saputo rendere Napoli una città amata e invidiata, al centro non soltanto di un universo calcistico, ma di un pieno riscatto sociale e morale. Scrisse Eduardo Galeano nel suo “Splendori e miserie del gioco del calcio” (traduzione di Pier Paolo Marchetti, Sperling & Kupfer Editori): “E grazie a Maradona il sud oscuro era riuscito, infine, a umiliare il nord luminoso che lo disprezzava. Coppa dopo coppa, negli stadi italiani ed europei, la squadra del Napoli vinceva, e ogni gol era una profanazione dell’ordine costituito e una rivincita sulla storia“. Ho avuto la fortuna, nella mia carriera di cronista a “Tuttosport”, di accompagnare Dieguito durante le sue stagioni al Napoli, nella sua parentesi al Siviglia, con la nazionale argentina; di intervistarlo, a lungo, quando ero a Sky, a Formia: fu ironico, sincero, spiazzante. Gli ho voluto bene, ho colto la sua grandezza e la sua debolezza, la sua spontaneità e quella sua volontà di mordere la vita in ogni secondo, in ogni momento, in ogni frammento. Aveva fame di vivere, per questo non si è mai curato delle amicizie sbagliate e delle albe esagerate. Ma sapeva darsi agli altri, con generosità: mai dimenticando le sue origini umili, povere.

Faceva beneficenza, ma non voleva farlo sapere: per questo depistava giornalisti e fotografi. Niente luci della ribalta, niente riflettori. C’ero anch’io sull’aereo, in quel lucente e persino struggente luglio del 1984, che portava il ventiquattrenne Maradona da Barcellona a Napoli. Era un ragazzo felice: non vedeva l’ora di affrontare quella sua nuova avventura, di dare vita ai suoi sogni e al suo futuro. Dopo pochi giorni, lo intervistai per il mio giornale. Gli chiesi: “Come farai, Diego, a superare la nostalgia per Buenos Aires?”. Lui mi rispose da poeta, aprendosi in quel suo sorriso a girasole: “Mi basterà spalancare la finestra e guardare il mare di Napoli“. È stato uno scugnizzo, ha dato amore ed è stato ricambiato, ora lo stadio San Paolo porterà il suo nome. Ed è giusto così. Osvaldo Soriano, nella nostra ultima chiacchierata, al telefono, prima della sua scomparsa (1997), mi confessò due suoi desideri di scrittura: dare un seguito a “Triste solitario y final”, il capolavoro che lo fece conoscere nell’universo letterario: non più con Philip Marlowe protagonista, ma con in primo piano Emilio Salgari, il padre degli Eroi; e poi di dedicare un romanzo a Diego Armando Maradona. E fu proprio il narratore argentino, fra i primi, a segnalare Dieguito per il football italiano. In una lettera ad Arpino, dal suo esilio argentino, il 7 maggio 1979 (Massimo Novelli, “Bracconieri di storie”, lettere fra Giovanni Arpino e Osvaldo Soriano, Spoon River): “Insomma, credo di averti già detto, che vivo in una stanza con il letto, la macchina da scrivere, il gatto e i libri. Mi raccontano gli amici che in un piccolo club di Buenos Aires, Argentinos Juniors, si trova la salvezza del Torino. Si chiama Diego Armando Maradona, ha diciotto anni ed è, stando al parere dei giornalisti e dei miei stessi amici, il miglior giocatore (sebbene sia bassetto) degli ultimi trent’anni. Fa due goal per partita (la sua squadra fa pena ma lui è il migliore), ed è già nella selezione nazionale. Certo tutte le grandi squadre, e il Barcellona, lo vogliono comprare: costa, credo, cinque milioni di dollari. Se il Torino possiede questa cifra di denaro, è salvo. Dicono che accanto a lui Sivori è un energumeno. Dopo non dicano che non li ho avvertiti. Un forte abbraccio. Osvaldo“. No, Dieguito non è morto. Continua a vivere nelle nostre illusioni, nelle nostro utopie, nelle nostre speranze.