CULTURA

MERITOCRAZIA, EREDITARIETÀ, EGUALITARISMO

Paolo Vieta

Alla nascita gli individui non partono dalle stesse condizioni

Il riconoscimento del merito, il premio alla competenza ed all’impegno sono spesso declamati a gran voce, ma raramente vengono messi in pratica. Perché dovrebbero esserlo? Perché il riconoscimento pubblico, dei meriti di qualcuno, rispetto a qualcun altro, stimola tutti a fare meglio, ad impegnarsi di più, sprigionando le energie che sono contenute all’interno di ogni individuo e troppo spesso giacciono sopite. A vantaggio, non solo del singolo, ma di tutti quelli che si sentono stimolati, cercando di emulare, questa corsa all’autoaffermazione. Concetto riconducibile quanto meno all’epoca napoleonica, poi fatto proprio dai movimenti liberali, in antitesi ai privilegi aristocratici di diritto ereditario. Diametralmente opposta l’idea egualitaria, ben riassunta da Marx nella celebre frase «Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni» per la quale non solo non vi è alcun riconoscimento del merito individuale, ma vi è per giunta l’obbligo di fornire alla collettività il massimo possibile. Ipoteticamente, se tutti lo facessero, la quantità di lavoro così ottenuta sarebbe ottimale e la redistribuzione a vantaggio dei più deboli. Peccato però che la storia del comunismo sovietico abbia dato esiti assai diversi. Senza riconoscimento individuale, l’impegno del singolo cala ad un livello meramente conservativo; quanto alla redistribuzione, basta pensare all’orwelliana Fattoria degli animali (1945) la cui conclusione è che «Tutti gli animali sono tutti eguali ma alcuni animali sono più eguali degli altri». Entrambe queste idee condividono, però, l’avversione nei confronti del principio ereditario, proprio delle società aristocratiche, in cui la distribuzione non è eguale ed il riconoscimento dei meriti quanto meno dubbio, se esiste è limitato all’interno della casta di appartenenza. Queste tre idee, variamente ricomposte, formano l’ossatura della società e delle leggi in cui viviamo e le tensioni si generano dal sottolineare ora l’uno, ora l’altro aspetto. Il diritto civile introietta il principio ereditario nelle norme dedicate alla successione: la quota legittima del 50%, concetto assente nel mondo anglosassone, è un equilibrio tra il diritto dei figli (e coniugi) e la volontà del genitore. Inoltre, l’imposta di successione inserisce il principio egualitaria di redistribuzione, dal 4% al’8% oltre una certa franchigia, da un milione di euro a zero, in funzione della parentela del beneficiario. Alla nascita gli individui non partono dalle stesse condizioni: si vuole impedire a dei genitori di dare il massimo possibile, in termini di educazione, istruzione, possibilità ai propri figli? Platone nella Repubblica aveva ipotizzato una messa in comune dei figli, come presupposto di uno stato in cui l’appartenenza alla classe è determinata dall’indole di ciascuno e non dalla nascita. Dobbiamo però ricordare che lo stato ideale di Platone non è affatto democratico, è uno stato classista in cui l’ascensore sociale funziona ottimamente, anche se più per innata propensione dell’individuo che per impegno. Dopo la nascita e la famiglia, per l’individuo arriva il periodo dell’istruzione ed è questa che oggi, nella Repubblica Italiana, è considerata il principale, se non l’unico possibile, ascensore sociale. Nella Costituzione troviamo infatti l’Articolo 34 – La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso. Che da un lato, garantisce parità di accesso a tutti, senza distinzioni di tipo aristocratico, sia come diritto passivo (senza limiti o vincoli), sia come diritto attivo (lo Stato si attiva per sostenere chi non ha i mezzi) per tutti ai livelli inferiori, per i meritevoli ai livelli superiori.

Con ciò recepisce un principio meritocratico: tutti devono avere l’opportunità di arrivare alla laurea, che non vuol affatto dire che a tutti la laurea debba essere garantita, secondo l’idea egualitaria. Condivido cosa pensava il mio relatore: nei decenni passati si erano azzerate le tasse universitarie, ma si continuavano a laureare solo i figli dei benestanti; meglio invece far pagare le tasse e con queste creare borse di studio per gli altri. Da più parti mi è stato raccontato che nel ’68, quando le università erano occupate dalla nota ubriacatura ideologica, l’istruzione era azzerata ed i figli più abbienti andavano d’estate a fare costosi corsi di recupero all’estero; questi si sono poi laureati comunque, i figli delle classi sociali più svantaggiate hanno sì avuto l’università aperta, ma come scatola senza contenuto. Il tanto sbandierato egualitarismo ha così prodotto la massima disuguaglianza. Dopo il periodo di istruzione, l’individuo entra nel mondo del lavoro che è, ancora una volta, una combinazione delle tre idee già espresse. In Italia la componente egualitaria è molto forte e si concretizza nei contratti collettivi di lavoro e nei relativi minimi retributivi. Il che non impedisce che vi sia il riconoscimento dei meriti individuali, nelle aziende cha hanno le dimensioni ed i valori per volerli riconoscere. Rimane molto forte l’ereditarietà nelle piccole medie aziende, a conduzione familiare, che tanta parte rappresentano del tessuto produttivo italiano. Con tutti i dibattiti del caso: si può impedire a genitori che hanno dedicato la vita a costruire un’attività, di lasciarla ai figli, sperando nella sua continuità? Hanno titolo questi ultimi, di ostentare danaro e ricchezze, quali simbolo di capacità ed impegno, quando i loro meriti sono, in parte più o meno ampia, ereditati? In queste aziende vi è spazio per il riconoscimento meritocratico del lavoro dei dipendenti? O si trova, piuttosto, la tendenza al nepotismo, al familismo amorale, al circondarsi di quei cortigiani che Rigoletto chiamava «vil razza dannata»? Magari nel più assoluto disprezzo dei titoli di studio. La scelta è nelle mani dell’imprenditore: alcuni sono più illuminati, altri decisamente meno. Francesco Alberoni ha messo bene in luce le virtù della leadership ne L’arte del comando, BUR RCS Milano 2002: «Le imprese che scelgono solo collaboratori succubi, privi di originalità e colpiscono senza ritegno tutti coloro che non la pensano come loro, che non appartengono al cerchio ristretto finiscono inevitabilmente per decadere». Non stupiamoci poi se, ogni anno, decine di medie imprese manifatturiere italiane sono acquisite da multinazionali estere; invece di gridare allo scandalo ed alla difesa nazionale, chiediamoci di quanti mediocri Tartufo si erano circondati questi imprenditori. La coesistenza di queste tre realtà accompagna l’individuo in tutte le fasi della sua esistenza e, se è legittimo che qualcuno abbia condizioni di partenza migliori, se è auspicabile che vi sia una protezione egualitaria per i meno fortunati o capaci, questo non ci deve far dimenticare che il vero motore della crescita individuale e sociale è il riconoscimento del merito. In tutte le fasi della vita, è il solo stimolo a fare di più e meglio, l’unica molla che spinge l’umanità. Attenzione quindi a soffocare il talento in nome di un’eguaglianza forzata, a bloccare l’ascensore sociale, ad umiliare l’iniziativa a favore della piaggeria. Che siano queste le cause per cui l’Italia ha accumulato un ritardo di decenni tra i paesi industrializzati?