I GIOVANI

GIOVANI COMPLESSITA’ E FUTURO

Luisa Piarulli

Non è più accettabile adeguarsi o delegare l’educazione. Si rischia il nichilismo esistenziale.

“È una vecchia abitudine dell’umanità

passare accanto ai morti e non vederli”

(J. Saramago)

Da ogni parte si leva l’usurata espressione “i nostri giovani sono a rischio di futuro”, quasi una recitazione meccanica inserita in aridi discorsi che non fanno intravedere significativi cambiamenti. Intanto i vuoti educativi si moltiplicano e i nostri giovani, che sembrano avere tutto, in realtà non hanno niente. È bene che gli adulti educanti, e lo siamo tutti, si assumano la responsabilità di un tale disastro. Quali sono le basi di futuro che abbiamo confezionato per i nostri giovani? Come garantiamo l’effettiva uguaglianza sociale? Siamo davvero capaci di riconoscere nelle nuove generazioni i talenti e offrire i giusti modi per esprimerli? Domande e ancora domande alle quali dobbiamo finalmente rispondere con onestà intellettuale, coscienti che l’Educazione va rigenerata sotto la spinta di una scienza pedagogica che a sua volta sia in grado di evolversi. L’architettura istituzionale, politica e sociale ha un primo macro obiettivo da raggiungere: riconoscere che in una democrazia ogni soggetto ha il diritto di esistere con dignità e protagonismo secondo il principio costituzionale dell’uguaglianza sociale (art. 34 della nostra Costituzione), attraverso la scuola in primis e ogni altro “luogo” educativo. Non bastano più le riforme scolastiche con gli ampliamenti o le riduzioni dei contenuti didattici, o le apparenti trasformazioni valutative. Occorre la messa in opera di specifiche metodologie pedagogiche fondate sulla relazione educativa, sul dialogo, sulla parola, sullo sviluppo del pensiero per imparare a stare nel mondo dinamicamente, secondo un’etica dell’esistenza e la comprensione del principio della libertà. L’uguaglianza si deve garantire attraverso il riconoscimento della diversità di ciascuno e l’espressione di ogni talento, mediante i principi di inclusione e di integrazione che oggi rischiano di perdere il loro spessore culturale. Le presunte innovazioni che prevedono l’utilizzo delle nuove tecnologie (classi 2.0 per esempio e simili) vanno coadiuvate da una significativa impronta umanistica. È necessario ripartire dalla triade educare, formare, istruire, tanto complessa quanto il nostro tempo, per educare a riconoscere pienamente la complessità della vita, ovvero un intreccio di trame che, intersecando l’uno al molteplice, restituiscono senso all’esistere, al fare, al sentire, a vedere, permettendo di superare la cecità e l’indifferenza e provare a scrivere un futuro sostenibile e solidale in senso autentico. Oggi le parole sono usurate e mal comprese, i discorsi sono intrisi di retorica, la semplificazione è invasiva. A dominare sono per lo più i criteri di mercato o i dettami di efficienza aziendalistica, o l’autoreferenzialità che stanno contaminando anche la scuola I nostri giovani, privati sempre più dei loro spazi, del loro tempo, dei riti di passaggio, in balia dei social media si affidano sempre più alle agorà virtuali (con i pericoli che ne derivano) che hanno rimpiazzato il muretto, il cortile, il campetto, luoghi educativi d’eccellenza quanto la scuola e la famiglia. In questo modo essi rischiano una sorta di atrofizzazione del pensiero, una già percepita aridità del linguaggio, l’incapacità di superare gli ostacoli del vivere e le frustrazioni che ne possono derivare, l’incompetenza nella gestione sana dei conflitti e delle emozioni. I nostri giovani vogliono sentirsi liberi ma non sono educati alla libertà, dispongono di un’accozzaglia di informazioni (Morin) facilmente reperibili in rete, ma non sono in grado di riconoscere una fake news da una notizia vera, così come non sanno distinguere tra mondo reale e mondo virtuale. Tranne pochi casi, essi appaiono fruitori passivi dei social, si tramutano piano piano in homo consumens e, purtroppo, nella società dei consumi lo sciame tende a sostituire il gruppo (Z. Bauman). Non è più accettabile adeguarsi o delegare l’educazione. Si rischia il nichilismo esistenziale. Abbiamo le risorse e non le vediamo! Sono loro, i giovani, con la loro esuberanza, con l’entusiasmo di cogliere i fiori della vita, con i loro sorrisi e le loro immagini di futuro, i loro sogni e i loro progetti. Essi rappresentano la materia prima. Con loro possiamo e dobbiamo scoprire che il caos, meglio Chaos, è positivo perché si apre all’immensità[1], come narra Esiodo nella sua Teogonia, comprendere che esso è possibilità di apertura, spazio verso la creatività, sorgente di nuove idee, individuazione di altre e innovative strategie.

[1] caos deriva dal latino chaos e dal greco χάος, da χαίνω , «essere apertospalancato»(Treccani).

Ai nostri giovani dobbiamo restituire il valore profondo della bellezza per superare la vanità dell’apparenza, riabilitare il linguaggio per offrire un’altra ermeneutica esistenziale così che crisi e caos non siano motore di forme ansiogene e depressive, ma stimolo e motivazione a ricercare altre vie. L’uso massiccio dei social media rischia di provocare incapacità di esplorare il dono del pensiero. Educare a pensare il pensiero è la sola alternativa che implica la negazione della tendenza al versamento bulimico di contenuti, nozioni, precetti nonché il pregiudizio scientista per il quale tutto è controllabile, oggettivabile, quantificabile, posizione di pensiero che ha incoraggiato una sorta di didattismo docimologico (R. Massa, 1997). Alcune ricerche, in particolare quelle del ricercatore neozelandese James R. Flynn rilevano un generale abbassamento del Q.I. Si potrebbe ipotizzare che i risultati siano attribuibili allo strumento forse superato. D’altra parte i nuovi artefatti cognitivi, dovuti allo sviluppo esponenziale delle tecnologie, hanno di fatto provocato la perdita di capacità funzionali, come ad esempio la memoria. Un elemento che spiegherebbe l’abbassamento del Q.I. È un tema che merita serie riflessioni. Intanto, per non rischiare il superamento dell’uomo bisogna investire in metodologie educative in grado di rinforzare, sviluppare, far crescere il pensiero, comprendere che la conoscenza non è un processo lineare e cumulativo che procede facendo luce laddove prima regnava l’oscurità, ignorando che l’effetto di qualsiasi luce è anche di produrre ombre[1]. Se le istituzioni hanno il compito di farsi carico della questione attraverso politiche serie e non solo emergenziali, dal canto suo la scienza pedagogica, che non è subalterna ad altre scienze, deve riacquisire un ruolo autorevole, a partire da sé per mettere fine al fenomeno invasivo della medicalizzazione della scuola e della famiglia, per offrire alternative sostenibili in sostituzione del determinismo che contraddistingue questo nostro tempo. Educare al pensiero complesso è doveroso e si può fare attraverso l’organizzazione di laboratori di epistemologia del pensiero, attraverso la riabilitazione della conversazione e delle arti dentro la scuola, il dialogo, l’ascolto, la problematizzazione, la comprensione. L’educazione al pensiero è il vero capitale umano! È un macro processo che deve coinvolgere adulti educanti e giovani, a partire dalla scuola dell’infanzia. Attraverso la riflessione, il professionista può far emergere e criticare il sapere che nasce dalla ripetitività delle esperienze (convenzioni, regole, intuizioni, teorie personali) e può trovare un nuovo senso nelle situazioni caratterizzate da incertezza o unicità che sperimenta (D. A. Schön). Anche il dialogo maieutico, andava e va in questa direzione. Chi crede di sapere non si interroga. E chi non s’interroga non pensa (Socrate). Il compito socratico consisteva nello scardinare pregiudizi, nel decostruire false certezze, nel mostrare le fragilità delle argomentazioni degli interlocutori, nel suscitare il dubbio che riaccende il desiderio di cercare,[2] nel consentire l’esplorazione di sé. L’Italia ha poi il problema del calo demografico, un fenomeno che paralizza il prezioso passaggio di testimone tra le generazioni, che disperde la storia umana, che dimentica le tracce che ci portiamo impresse. Ai giovani mancherà una preziosa dimensione biografica. L’Educazione può ma deve stare al centro e la scuola è uno dei fulcri principali. I programmi scolastici devono prevedere nuove discipline, oltre all’educazione civica: i laboratori del pensiero riflessivo. I laboratori contemplano il fare, il sapere, l’essere, restituiscono l’agorà autentica dove i giovano possono sperimentare il con-tatto, la relazione, il dialogo, dentro una pòlis attiva e coinvolgente capace di vivere le tecnologie come strumenti al servizio dell’uomo e mai il contrario, di captare la multidimensionalità del pensiero (E. Morin). Non si può pensare che tutto ciò sia lasciato al caso o alla libera iniziativa di pochi insegnanti appassionati. Bisogna ri-formarsi a partire dagli adulti, dallo Stato al singolo, affinchè sia possibile per i nostri giovani “prendere il volo”, cioè crescere, responsabilmente, con la motivazione necessaria per “giocare la vita”, per maturare un pensiero critico, per imparare a essere autenticamente liberi, per conoscere le insidie dei social media, per evitare il rischio della semplificazione, per incontrare l’Altro da me, scoprirne il Volto e superare la solitudine, per arricchirsi attraverso una moltitudine di idee che permettono il Sapere e contribuiscono alla produzione di Cultura. Cultura: la matrice della umanizzazione, la strada verso un’etica esistenziale, la speranza di un futuro sufficientemente buono.

L’educazione è il nostro passaporto per il futuro,

poiché il domani appartiene a coloro che

oggi si preparano ad affrontarlo.
(Malcom X)

[1] E. Morin, Educare per l’era planetaria, Milano 2003

[2] V. Frankl, Fondamenti psicopedagogici dell’analisi esistenziale, Roma 2012