EDITORIALE

L’ANNO AD ALTA ANTESITA’ E LA MALAINFORMAZIONE

Guido Barosio

La concorrenza è il sale del giornalismo e sovente della vita civile.

Non tutti gli anni hanno il medesimo peso specifico, alcuni contengono elementi di svolta che ricorderemo nel tempo, e che solo il flusso della storia deciderà quando smaltire e come. Ne ho presi in esame quattro, ma ho anche allargato la mia attenzione alla galassia dei media, condizionante nella percezione collettiva. A ottobre 2021 Zuckerberg cambiò cambiato il nome di Facebook in Meta e, contestualmente, lanciò il Metaverso, dove verrà superata la barriera tra virtuale e reale: un Second Life rivisto e aggiornato, nel quale immergersi con utilizzi parzialmente ancora ignoti. Condizionerà anche il mondo dell’informazione? Si, ma non sappiamo ancora come. Certamente, oggi, vediamo l’afflusso delle notizie mai così esondante e vicino all’area del “fuori controllo”. Attendibilità in vertiginoso calo e uno strumento ormai egemone nella fruizione: lo smartphone. Il primo alert arriva sempre dal piccolo schermo tascabile, ma anche il primo approfondimento, e il secondo e il terzo. Quando la palla passa alla televisione, e dopo ancora ai media cartacei, l’abitante dell’antropocene ormai sa tutto. Forse. Se ci focalizziamo sull’Italia riscontriamo però che, ancora oggi, i media tradizionali sono ritenuti i più attendibili dai cittadini. Quando i quotidiani non escono, nei giorni festivi, sale, in parallelo, il numero delle fake news. Potrebbe esserci di confronto, se non vedessimo fenomeni di concentrazione più inquietanti che allarmanti. Nel nostro paese esiste un player, si chiama GEDI, che controlla, tra gli altri, La Repubblica e La Stampa, Radio Deejay e Radio Capital, persino National Geographic e, l’apparentemente indipendentissimo, Huffington Post. Una galassia con milioni di fruitori, dove giornalisti e direttori si scambiano di posto come pedine sulla scacchiera, dove vince l’integrazione e l’omologazione a scapito della concorrenza. Che è il sale del giornalismo e sovente della vita civile. Per semplificare l’esempio è come se il proprietario dell’Inter fosse anche quello del Milan, della Juventus e di chi volete voi. Nel calcio è proibito, nel giornalismo italiano no. Nel trascorso 2022, anno ad alto peso specifico, il quadro dell’informazione non genera fiducia, anzi. L’esempio più evidente lo riscontriamo nella coralità di giudizio, sul covid, sulla guerra in Ucraina, sul nuovo governo Meloni. Le notizie trasversalmente simili, i commenti uniformi, il giudizio allineato, sono fattori che già erano entrati in campo con il diffondersi dell’epidemia, a febbraio 2020. Quest’anno li abbiamo notati su più fronti, e il mood si è fatto ancora più evidente. Stampa imbavagliata e manipolata? Non penso. Ma quando il padrone è uno solo le pedine si allineano naturalmente, evitando le difformità ed il giudizio dissenziente. La guerra in Ucraina è stato lo scenario dove “il nuovo giornalismo” è stato più performante. Quando il conflitto iniziò, per qualche settimana i commentatori tentarono di districarsi in una situazione complessa e per nulla unilaterale. La storia dice che l’Ucraina è una ex repubblica sovietica (tra i fondatori dell’Unione) indipendente dal 1991. Prima lunghe e complesse vicende, dove le due realtà territoriali sono state spesso una sola, con capitale Kiev, e solo dopo Mosca. L’Ucraina concepita come repubblica dell’URSS aveva confini tracciati a tavolino (perché nessuno aveva neanche ipotizzato la dissoluzione del colosso) e coesistevano cittadini di matrice russa con altri di derivazione più occidentale, per semplificare. La nuova repubblica indipendente ebbe quindi in sé, fin dall’inizio, un vizio di forma e un inevitabile potenziale esplosivo. Quelle che seguirono furono vicende che abbiano (o avremo dovuto) imparare a conoscere: governi fantoccio, elezioni taroccate, spaccature etniche, conflitti a bassa intensità, otto anni di conflitti prima della guerra del 2022, inevitabile (e forse fin troppo prevedibile) conseguenza. Purtroppo è un dato di fatto che, in una parte del mondo dove la democrazia, se va bene, è controllata dagli oligarchi, le soluzioni non sono diplomatiche ma affidate ai carri armati. Però se si ignora la storia, se ci si concentra sulle conseguenze e non sulle cause, tutto appare in un’ottica distorta. I governi occidentali, e i media allineati con essi, hanno scelto la santificazione del governo ucraino (non del suo intero popolo) a scapito della Russia cattiva (la Russia intera, non solo il suo regime), alla quale imporre sanzioni, economiche ma anche sportive e culturali. Questa disamina non vuole per nulla assolvere Putin (l’aggressione è un dato inconfutabile), ma proporre una lettura meno comoda e rassicurante, più complessa, ma l’unica in grado di elaborare soluzioni. Noi (tutta la galassia della NATO) invece siamo diventati belligeranti senza esserlo, abbiamo sostenuto (e continuiamo a sostenere) un regime (perché di questo si tratta) contro un altro, abbiamo abdicato alla possibilità di essere un elemento anche solo minimamente equidistante, quell’elemento che avrebbe potuto portare ad un tavolo delle trattative i due contendenti. Abbiamo fatto il bene dell’Ucraina? Certamente no, perché, in mancanza di un cessato il fuoco, tutte le vittime civili sono ucraine. Abbiamo danneggiato la Russia? Solo marginalmente, perché in Russia si vive sostanzialmente come prima, al netto dei militari uccisi. Abbiamo danneggiato noi stessi? Sicuramente si, con costi economici gravi e non ancora completamente quantificati. E i nostri media? Disciplinatamente allineati, vittime e notizie dal conflitto prese quasi sempre da una sola fonte, qualsiasi voce del “cattivo invasore” ridicolizzata e pretestuosamente commentata. In più le voci dissenzienti messe al bando, putiniano è stata la nuova definizione per chiunque provasse a spostare il punto di punto nell’osservazione. Conseguenza?

Oggi, dopo un anno, non sappiamo più che cosa fare (i governi NATO) e che cosa dire, anche l’area più aggressiva dei media comincia ad andare in affanno. Io penso che il 2023 possa essere l’anno della pace, o perlomeno l’anno di congelamento del conflitto. Perché entrambe i contendenti hanno il fiato corto e hanno perfettamente capito, al di là della reciproca propaganda, che qualcosa dovranno comunque cedere. Ma chi li porterà al tavolo delle trattative? Non certo la NATO, ostaggio di un impero americano sempre meno autorevole, in balia di una RSA politica dominata da Biden e Trump, con nessuna novità all’orizzonte. L’Europa, al di là degli slogan, non è mai stata così fragile, tra scandali e fragilissime leadership. E allora chi resta? Forse quelli che hanno mantenuto un profilo più moderato e attendista: Israele, la Turchia, la Cina, forse il Papa…Ma andiamo oltre e trattiamo il tema che più ci ha angosciato tra il 2020 e il 2021: l’epidemia sanitaria. Diciamo subito che la guerra ha mandato in soffitta il covid, non lo ha sconfitto, lo ha mandato proprio in soffitta, che è un’altra cosa. Ed è avvenuto tutto in poche settimane, l’unico vero risultato ottenuto dai militari di Mosca. La legge dei media è semplice da sempre, vince l’ultimo arrivato e non si fanno prigionieri. Per mesi suscitavano quasi tenerezza i virologi, ex star di ogni dove, relegati nelle pagine interne, protagonisti di qualche sparuto minutaggio nei TG. Poi è arrivata la nuova temuta ondata cinese (sempre loro! Pangolini o vaccini inefficaci, ma sempre loro!), contemporaneamente la guerra in stallo non emoziona più, così le prime pagine dei quotidiani si sono concesse un rapido refresh. Quello che rattristo di più, a livello globale, non solo italiano o continentale, è l’insipienza di una classe politica vecchia, noiosa, inadeguata. Dove il tratto comune sembra essere l’impreparazione all’evento, sovente la risposta tardiva e inefficace. Sia lo scenario quello bellico oppure sanitario. E adesso osserviamo più da vicino gli eventi casa nostra. Il 2022 si è aperto col governo Draghi (amato forse più all’estero che in Italia) e si chiude con Giorgia Meloni alla guida del paese. Rivoluzione? Probabilmente sì. L’uomo dei grandi mercati, rassicurante a Bruxelles, ha lasciato il posto a una donna preparata, relativamente giovane, dal tratto energico e decisionista. Di destra? Tanto di destra, ma pronta a trattare con l’Europa consapevole dei vincoli e dei diritti che questo comporta. Qualche prima spallata c’è già stata, come per la questione dei migranti, ripresa con vigore dopo anni di passiva sonnolenza. Anche in questo caso merita attenzione la reazione dei media nazionali, coralmente innamorati di Draghi, ma pronti a dimenticarsene ad elezioni avvenute. Ecco, l’ex premier è stato, insieme al covid, il grande dimenticato del 2022. L’establishment della stampa italiana – morbidamente accomodato a sinistra, tranne alcune virtuose eccezioni – non poteva adottare convintamente una premier le cui radici affondano direttamente nell’MSI di Giorgio Almirante. Ma oggi osserviamo delle evidenti “prove di tregua”. Perché? La causa non è difficile da trovare: non c’è più una sinistra da difendere, non solo da auspicare al governo, ma proprio da difendere. Non ricordiamo nella storia dell’Italia repubblicana un così rapido ammainare di vessilli, un così repentino inabissarsi di presunti leader, una così palese incapacità di sintonizzarsi con il paese e le sue aspettative. Al momento, piaccia o meno, ci resta solo la Meloni, e remare contro impaurisce anche la corazzata GEDI. Il 2023 sarà un anno in cui molti nodi si scioglieranno, non saranno dodici mesi di transizione, non ce li possiamo permettere, a Roma, a Kiev, a Mosca, ad Ankara, a Pechino, a New York… Voglio chiudere parlando di sport, così almeno silenziamo per qualche riga conflitti, ospedali e Montecitorio. E se il 2023 fosse l’ultimo anno della Juventus? Coraggio cugini bianconeri, non sarà proprio così, ma qualcosa accadrà. La signora del calcio italiano, quella che governato, durante i suoi 126 anni, un numero imprecisato di campionati, si presenta nel nuovo anno in braghe di tela. Cancellato in un sol colpo tutto il gruppo dirigente, presidente in testa, ripartirà, dopo la transizione, da non si sa chi. Che l’amore con Exor sia finito, collassato da tormenti finanziari? Che ci si prepari ad una clamorosa cessione? Che si profili di nuovo la B? Che spariscano un pugno di scudetti e la prossima Champions? Non lo sappiamo ancora, ma quello che si vede in controluce rende improbabile ad un colpo di spugna. Anche perché non ricordo un azzeramento preventivo di tutte le cariche in una società di calcio a questi livelli. Mossa fatta per tutelare o improvvida fuga quando ormai il danno era fatto? Propendo per la seconda ipotesi. Quello che si può notare, però, è l’assenza di una “difesa d’ufficio”, anche da parte di quei giornali che, ricordiamo, appartengono alla medesima proprietà. E i media, oggi più che mai, vanno sempre più osservati in una doppia direzione: quello che dicono e quanto ignorano. Lo so, da granata non dovrei dirlo, ma io la Juve la voglio ancora. Magari riallineata con la giustizia, ma la voglio ancora. In anni che nascondono una trappola dietro ogni vicolo, ho imparato ad apprezzare quello che ho sempre avuto e quello che resta, anche se non lo amo. Bene, ora voltiamo pagina, e caliamoci nel 2023. George Clooney firmò, era il 2005, un bellissimo film intitolato “Good Night, and Good Luck”. Quella era la frase scelta dal giornalista Edward R. Murrow per chiudere le sue trasmissioni alla CBS. Un saluto e un augurio, non so trovarne uno migliore.