Orgoglio degli italiani in Brasile. È stata una sofferenza. Minuto dopo minuto. Poi, la gioia infinita. L’allegria, il carnevale, il batticuore: il mio Palmeiras, superando, a Montevideo, il Flamengo per 2-1 ai supplementari, ha vinto per il secondo anno consecutivo la Copa Libertadores, che è la Champions League del Sudamerica. E, così, come per incantamento, sono tornato bambino, alla mia infanzia brasiliana, a San Paolo, orgoglioso figlio nipote e pronipote di migranti veneti.

Il calcio, lentamente, sta uscendo dalla sua crisi. Una crisi – dettata dalla pandemia -sociale, finanziaria, emotiva, storica. Gli stadi vuoti (adesso, soprattutto per gli Europei, ci saranno ingressi contingentati), una Superlega durata il lampo di uno sbadiglio, per il bene di un pallone ancora ancorato alla meritocrazia e al sentimento, i conti in rosso, una sensazione di vuoto, di assenza, in una vertigine di disillusione e di rimpianto.

Immaginatevi uno di quei vecchi saloon polverosi di Sergio Leone: vociare sopra le righe, espressioni non propriamente da collegio svizzero, ballerine appassite e disponibili, whiskey tanto e soldi pochi, unti e stropicciati. Sbattendo le porte fanno il loro ingresso dodici riccastri protervi, tipo Rockerduck (Paperone no, in fondo è simpatico) oppure Ebenezer Scrooge, ma prima della notte di Natale.

Paolo Rossi diventò, nei giorni abbaglianti del Mundial di Spagna del 1982, un nostro figlio, un nostro fratello, un nostro amico, così caro e così vero. Fu lui, quel centravanti dal sorriso come un raggio di sole, a farci sentire al centro dell’universo e del cuore, italiani orgogliosi, uniti e felici, nel pieno di un delirio di passioni, colori e sentimenti.

Ancora non riesco a crederci: Diego Armando Maradona è morto. Dieguito non c’è più, se ne è andato a 60 anni, lasciandoci più soli: noi che lo abbiamo amato per la sua fantasia, la sua bellezza e la sua arte sul prato verde. Lui, che ha saputo trasformare un pallone in uno scrigno di bellezza e meraviglie.

Alla mostra fotografica di Caselle Torinese dedicata a Gaetano Scirea, il giocatore più puro del nostro calcio, morto giovane, il 3 settembre 1989, in una strada polacca, quando era vice-allenatore della sua Juve, la Juve del suo amico fraterno Dino Zoff, osservavo le immagini del maestro Salvatore Giglio e, a ogni ritratto,

Il campionato post lockdown è terminato: la Juventus (“un esperanto anche calcistico”, suggerì Giovanni Arpino) ha conquistato il suo nono scudetto consecutivo, permettendo all’allenatore Maurizio Sarri di ottenere il suo primo titolo di prestigio in Italia. È stato un torneo, dettato dal Covid, assurdo e paradossale, senza pubblico sulle gradinate,

Il calcio è tante cose, lo sappiamo: sport popolare, passione e fanatismo, “un elemento fondamentale della cultura contemporanea”, come intuì Thomas Stearns Eliot, nostalgia del dribbling e invasione del marketing, trasmissioni quotidiane, “metafora della vita” (Jean-Paul Sartre) e “recupero settimanale dell’infanzia” (Javier Marías), miseria e nobiltà, prodezza e inganno.