Quarti di finale della Coppa del Mondo di Rugby, in campo il Sudafrica, i leggendari Springbok, detentori del titolo; di fronte la favoritissima Francia, che gioca in casa e perde, di fronte a motivazioni granitiche, che vanno ben oltre il dato sportivo. La mia riflessione parte dagli inni nazionali: i sudafricani, stretti tra di loro, sembrano un solo uomo, l’estensione di una medesima creatura, bianchi e neri, boeri e provenienti da ogni altra etnia.

Non tutti gli anni hanno il medesimo peso specifico, alcuni contengono elementi di svolta che ricorderemo nel tempo, e che solo il flusso della storia deciderà quando smaltire e come. Ne ho presi in esame quattro, ma ho anche allargato la mia attenzione alla galassia dei media, condizionante nella percezione collettiva. A ottobre 2021 Zuckerberg cambiò cambiato il nome di Facebook in Meta e, contestualmente, lanciò il Metaverso, dove verrà superata la barriera tra virtuale e reale: un Second Life rivisto e aggiornato, nel quale immergersi con utilizzi parzialmente ancora ignoti.

Giorgio Gaber nel 1976 cantava, con perfidi sorrisi ammiccanti, l’eleganza e la pulizia del momento elettorale: cielo sereno (non piove mai durante le elezioni…), silenzio, pulizia per la strada, e, arrivati al seggio, una bellissima matita, marroncina e perfettamente appuntita. Era il rassicurante rito propiziatorio per la nostra scelta. Una scelta che, in modo altrettanto rassicurante, premiava con regolarità la Democrazia Cristiana, lesta nel precedere regolarmente il PCI.

Eurovision non ha fermato la guerra, ma ha fatto vincere chi, altrimenti, non avrebbe mai vinto. Con le giurie popolari condizionate dal martellamento mediatico che ha capovolto il risultato. Ma fino a qualche anno fa chi si interessava ad Eurovision? Per i non molti che la vedevano, o la intercettavano per caso, il contest era una sorta di Festivalbar in ‘versione Carpazi’, dove l’Italia recitava un ruolo da comprimaria.

La società globale della comunicazione ha battuto un altro colpo a vuoto, dopo la pandemia del 2020 (e oltre), è la volta della guerra per l’Ucraina, che ci auguriamo sia molto più breve e meno letale. Ma il parallelo tra la gestione mediatica delle due situazioni fa amaramente riflettere. L’homo communicator del terzo millennio vive la più grande rivoluzione dai tempi di Gutenberg: mai diffondere notizie e commenti è stato così facile e poco costoso, più della metà della popolazione mondiale dispone di uno smartphone in grado di recepire immagini e video in tempo reale, come innescare commenti altrettanto rapidi.

La pandemia di Covid compie due anni, anche se la data precisa di inizio resta incerta, mentre invece sappiamo che la zona rossa venne istituita a Codogno il 20 febbraio 2020. Due anni, quindi. Quelli necessari ad un bambino per diventare più sicuro e agile nella camminata, per esprimersi meglio con le parole e diventare sempre più autonomo.

Siamo (apparentemente) nell’era della copertura globale e in tempo reale, di tutto ciò che accade. La rete e i social sembrano garantire la più grande rivoluzione dell’informazione dai tempi di Gutenberg. Sfioriamo il tasto di Google sullo smartphone e piombiamo immediatamente su ogni argomento desiderato. È tutto lì, davanti a noi, in un attimo.

Tra qualche anno non ricorderemo l’estate 2021 solo per i suoi aspetti sanitari – legati alle vaccinazioni, alle varianti, alle riaperture sempre più tenaci – oppure politici: il ritorno al potere dei talebani, la fuga degli occidentali dall’Afghanistan. Ma quello che dovremo studiare con cura è l’evoluzione, se non piuttosto l’involuzione, della comunicazione nei suoi vari aspetti: interpersonale, mediatica e, in particolare legata ai social media.

Lo sport agonistico e professionale nulla ha, o quasi, a che vedere con l’attività fisica di base. Quest’ultima è ricerca di salute e benessere, di armonia con sé stessi e con coloro che dividono il nostro interesse. Mentre accedono all’agonismo solo i migliori, coloro che gareggiano per vincere, quelli che – professionisti o no – modificano il proprio stile di vita con la pratica della propria disciplina. Atleti di questo tipo ci sono sostanzialmente sempre stati, a partire dalla Grecia classica, dove venivano adorati come semidei.