In queste settimane sta diventando virale, non solo in Italia, Squid Game (2021) una serie televisiva sudcoreana, prodotta a distribuita da Netflix, che ci dà modo di riprendere alcuni temi già affrontati. In primo luogo la serie, in nove puntate, è marcatamente sudcoreana non solo nell’ambientazione e negli attori, ma anche nei temi trattati, a cominciare dal gioco del calamaro (squid game) a cui deve il titolo che, personalmente, non ricordo di aver mai visto in Italia.

“Ernesta, chi è il furfante che mi ha rotto il vetro?” Tenendo fra le mani il pallone rosso responsabile della malefatta, interpello trafelata la portinaia del mio palazzo di piazza Cavour 3, una portinaia sui generis, che suona divinamente il pianoforte e inonda il cortile con le note di Mozart e Puccini. “Oh, no! Turna..è il mio Nando”, mi risponde, indicandomi il ragazzino magro in fuga verso i giardinetti, che si volta per scrutarmi, occhi vivaci sotto un ciuffo impertinente e un’espressione di sfida che tradisce un sorriso divertito.

Un qualcosa di impossibile, meglio molto molto difficile: è scomparso da poco, il 6 settembre 2021, e pare non risponda, non vorrà? non potrà? Nel dubbio mi sono rivolto a un sensitivo potente che conosco, a lui di solito basta darti uno sguardo per dire cose importanti. Ci tiene all’anonimato e quindi non dirò chi è né dove sta. Quando gli ho detto di Belmondo, mi ha sorriso, abbracciato e, con la sua usuale serenità, mi ha mandato a casa: “Vai e aspetta”.

Dopo due anni di segregazione sono state recuperate tutte le modalità di prima della pandemia per poter attrarre ed avere le presenze, non solo degli interessati a mare e montagna, ma anche a luoghi di Cultura, fonte di benefici diretti ed indotti. Hanno riaperto i Convegni, Teatri, Musei, Dimore Storiche, Mostre ma molto si è puntato su rievocazioni e anniversari. Sfortunata quella del” Divin Pittore “a Roma, nei 500 anni della morte di Raffaello, inaugurata e subito chiusa, nonostante il solerte adeguamento ai DPI della direzione delle Scuderie del Quirinale. Si è passati quindi a Leonardo, con celebrazioni in tutte le città vissute dal Genio fiorentino, poi Dante, con le doverose, sacrosante celebrazioni al Padre della nostra bella ma bistrattata lingua.

Queste righe non sono un elogio di Mario Draghi. Sarebbe inutile. L’uomo è l’italiano più conosciuto e riconosciuto al mondo, ha ridato prestigio internazionale al nostro paese, sta affrontando con successo la catastrofe pandemica e rappresenta la garanzia internazionale per l’assegnazione degli ingenti fondi europei. Di fronte ad una tale evidenza dei fatti, non vi è alcun bisogno di aggiungere commenti, perché la realtà si commenta da sé.

Citando Benedetto Croce: “Io non la farò la storia del fascismo perché mi disgusta; però, certo, se la dovessi fare, direi che la dovrei fare in questo e questo modo”, De Felice sostenne che era il contrario di come si faceva in quegli anni (e purtroppo sovente anche ora).

Sul tema dei cambiamenti climatici, da una trentina d’anni bombardati da continui allarmismi e scenari catastrofisti, credo siamo rimasti un po’ annichiliti, frastornati, un po’ scettici, ma alla fine svagati e remissivi sulle cause individuate e sulle azioni conseguenziali decise dalle organizzazioni internazionali, UE e stati europei. Talmente svagati che non ci siamo accorti che nell’aprile scorso tali organismi hanno approvato l’intesa (legge sul clima) sulle emissioni di CO2 (anidride carbonica), ovvero di ridurle del 55% entro il 2030 e di arrivare alle emissioni zero entro il 2050.

L’estate non deve far troppo bene alla lucidità dei filosofi. Due di loro – assai illustri – hanno contribuito, con argomentazioni alte e nobili, a quella mala informazione ricordata su questa pagine dall’editoriale di Guido Barosio: Giorgio Agamben e Massimo Cacciari, cui si è rapidamente unito Gianni Vattimo. (A questi si potrebbe aggiungere Diego Fusaro, che con grande difficoltà riesco ad includere nella cerchia dei filosofi).

La gestione fallimentare della politica occidentale in Afghanistan ci pone brutalmente davanti ad una domanda: ma noi, che ci stavamo a fare, davvero, in Afghanistan? Le risposte risuonano, ora più che mai, vuote: “per la democrazia, per la libertà, per la liberazione delle donne!” Ma oggettivamente chi ce l’ha chiesta, questa democrazia? Perché ostinarsi a volere un Afghanistan democratico quando l’Afghanistan ha dimostrato di non volere una democrazia importata?