EMOZIONI

LA FOTOGRAFIA DA VIAGGIO

Enrico Borla

Quando giungi in un posto sconosciuto non sai qual è la sua Anima, il suo Spiritus Loci.

Esiste un attimo magico nella vita di ogni fotografo: si parte! È il momento tanto atteso, soprattutto dopo questi mesi di costrizione della libertà- Finalmente ricomincia la vita errabonda dell’esploratore. La voglia di avventura che attraversa in modo adrenalinico il corpo di ogni cacciatore. L’inquietudine ci pervade, il tempo sarà buono? I paesaggi suggestivi? Riuscirò a fare foto non solo belle ma soprattutto originali? E lì parte la mia frase fatidica: “Voglio fotografare una Parigi minore”. Frase che può essere declinata per ogni luogo da New York a Dubai, dalle Maldive all’Arizona. Non importa il luogo, il trucco nella mia testa è cercare i luoghi minori per sorprendere gli altri fotografi con qualcosa di nuovo. L’ingenuità della mia speranza è disarmante. Ormai è stato fotografato tutto e in ogni luogo. Di originale non c’è più nulla. Ci si può tenere lontano da Instagram per mesi, sperando in una verginità che purtroppo è persa da tempo. E esiste poi un altro particolare non trascurabile: luogo che vai stile che cambi. Quando giungi in un posto sconosciuto non sai qual è la sua Anima, il suo Spiritus Loci. All’inizio abbagliato dalla novità spari a caso degli scatti. Ma sono foto prive di vitalità, foto da cellulare, scatti imbarazzanti che rotolano a caso. Raramente i clic dei primi giorni sono piacevoli. È come mancasse qualcosa, come se sfuggisse l’essenza del luogo. La veridicità fantasmizzata dalla fotografia è lavoro periglioso e che necessita di tempo. E pensare che ci eravamo preparati a lungo. Diligentemente avevamo acquistato le guide. Avevamo in pugno gli itinerari e le peculiarità del nostro viaggio. Ma la carta stampata è differente dal nostro occhio. Nei giorni che precedono la partenza abbiamo preparato il nostro zaino con il corpo macchina, il carica batterie. Ricarichiamo entrambe le pile (non si sa mai), poi indaghiamo sulle prese elettriche del luogo, abbiamo anche provveduto a scegliere la spina confacente. Operazione quasi sempre inutile visto l’internazionalizzazione degli hotel, ma il demone ossessivo del fotografo non va mai in ferie. Poi si apre l’annosa questione: quali obiettivi? Lo zoom da viaggio 24-120 impossibile rinunciarci. Ci saranno vasti paesaggi, come eliminare il grandangolo? Non tanto per quel che pesa ma sai lo spettacolo che da un 20 mm. Magari non porto il teleobiettivo, già e se poi per combinazione ci sono animali interessanti? Ok niente 50! A parte che pesa poco ma se volessi fare un esercizio di stile e fotografare tutto alla Cartier Bresson? D’accordo allora bando il cavalletto. E se ci fosse il notturno della vita? O una cascata intrigante? O un interno di cattedrale? Ovvio il cavalletto è irrinunciabile! E così siamo ai soliti 15 Kg, però in Viet Nam i nostri ragazzi avevano lo zaino da 40 Kg.

E sì, noi boomers siamo gli ultimi a fotografare con reflex. Tutti gli altri vanno di cellulare o al massimo di mirrorless. Ma sono oggetti privi di attrattiva non senti neanche lo scatto del vetro che si solleva e se lo senti è perché è una riproduzione elettronica altrimenti un silenzio assoluto degno di Al9000, computer di Odissea 2001.  Tornando a noi, essendo boomers abbiamo una sola guerra in mente, il Viet Nam visto nei cinegiornali durante l’infanzia. Libano, Kuwait, Iraq, Siria sono guerre censurate e soprattutto Hollywood non le ha mitizzate. Quattro film e pure brutti, mentre da Berretti Verdi a Platoon ce li siamo visti tutti e tutte le volte che indossiamo lo zaino con la nostra fotocamera, in fondo sogniamo di essere come Rambo con una mitragliatrice Browning 60 da 50 mm. Infatti su questa fantasia parte la scena tratta da Full Metal Jacket: la pulizia della fotocamera. Si smontano gli obiettivi, levati i tappi, con liquido speciale e panno annesso si toglie ogni traccia di polvere immaginaria dalle lenti. Poi arriva l’incubo: il corpo macchina. Si parte dalla funzione elettronica di pulitura interna. Poi si osserva lo specchio senza osare toccarlo alla ricerca di microscopiche tracce di polvere, poi con il panno morbido si puliscono tutti gli esterni. Fatto! Rimesso tutto al suo posto siamo pronti a passare i controlli aereoportuali. Il dopo è una storia personale. Dipende dal viaggio, dal nostro umore, dal nostro occhio, dalle condizioni metereologiche ma soprattutto dalla luce. La luce! La maledetta luce che porta al fotografo in viaggio in una perpetua litania di lamentazione. “Ah se ci fosse la luce giusta”, “Con questa luce schifosa, sarà tutto piatto!”, “Luce maledetta, o alzo gli ISO e sgrano tutto, oppure devo tirar giù il cavalletto, che fatica, mai più!”. In questa perpetua litania che si alterna a “Dio mio piove, meno male che è tropicalizzata (la fotocamera ovviamente) ma cosa vuoi che venga?”. Infelici, i più infelici, sono gli accompagnatori del fotografo da viaggio che oltre a sorbirsi le litanie della luce, passano ore ad aspettarlo per poi apostrofarlo: “Ma dove eri finito? Ehm scusa stavo aspettando che quei turisti si levassero di torno”, ecc ecc., le scuse del fotografo esperto sono infinite. E poi non dimentichiamo: “Scusa mi tieni un attimo lo zaino?”. “Visto che siamo al ristorante potresti mettere la macchina fotografica nella borsa?”,” Ho una contrazione alla schiena, il cavalletto lo puoi tenere un attimo (2 h)?” Poi il viaggio finisce, rimangono qualche migliaio di scatti in Raw e molti mesi a photoshoppare ma questa è un’altra storia. Nella speranza di trovare ancora qualcuno che ci voglia così bene da accompagnarci nella prossima avventura!