POLITICA

PUTINIANI D’ITALIA

Massimo Rostagno

Questa guerra non è sospesa nel nulla del cyberspazio.

Provengono dalle più diverse matrici culturali e politiche. Ci sono comunisti come Luciano Canfora; studiosi  ex missini e dichiaratamente  conservatori  come Franco Cardini  (un ‘rivoluzionario reazionario’); giuristi vicini alla galassia dell’anarco-insurrezionalismo dei centri sociali come Ugo Mattei; sociologi autodefinitisi di orientamento liberal-socialista come Alessandro Orsini ( nuova guest star del sistema mediatico, che fa finta di processarlo esaltandone al contrario la visibilità); ex conduttori già maoisti come Michele Santoro; massmediologi di ispirazione situazionista,  collaterali al grillismo puro e duro come Carlo Freccero. Si potrebbe continuare a lungo, ma i nomi sopracitati sono sufficienti per mostrare gli ambigui confini di un gruppo intellettuale: sono i “putiniani d’Italia”. Naturalmente la definizione è forzata, e molti di loro la rifiuterebbero così come respingerebbero l’idea di considerarsi i portatori degli interessi dell’autocrate russo. Ma tutti sposano una narrazione “antagonista” , diversa rispetto a quella prevalente nei media occidentali: il vero aggressore non è la Russia putiniana, bensì la Nato; l’azione russa è sostanzialmente un atto di legittima difesa di fronte all’aggressività occidentale; l’Ucraina è una sorta di cavallo di Troia degli americani che l’hanno armata a dismisura negli anni precedenti ; l’azione putiniana di queste settimana è la inevitabile conseguenza  di quanto accaduto negli otto anni precedenti a partire da quello che definiscono il “colpo di Stato” del 2014, ovvero la sollevazione di piazza che ha portato alla fuga del presidente ucraino filorusso. Da questa diagnosi deriva la prognosi che consiste sostanzialmente nella resa di Zelenskj, che continuando a resistere e a richiedere armi non fa che ingigantire le sofferenze del popolo ucraino. Queste per sommi capi le tesi dei “putiniani”. Chi scrive è distante le mille miglia, ma non è intento di queste righe dimostrare se hanno ragione o torto. La logica binaria, la militarizzazione delle posizioni è molto diffusa, ma nuoce all’informazione, al dibattito pubblico a vantaggio esclusivo dell’entertainement, senza fornire elementi di conoscenza o inediti punti di vista per comprendere ciò che sta davvero avvenendo. Questa guerra non è sospesa nel nulla del cyberspazio. Ha un “prima” e un “dopo”, laddove il “prima” è certo ed è costituito dal disfacimento dell’Unione Sovietica a far data dal 1989/91 e dalla progressiva perdita di status e di influenza territoriale da parte della Russia. E il “dopo” è invece incerto e consiste nei nuovi equilibri geopolitici del mondo che nel giro di poche settimane (ma si potrebbe dire di pochi giorni se non di poche ore) sono radicalmente e profondamente cambiati. Il “dopo” è il punto di caduta di questa impressionante trasformazione che muovendosi su binari del passato (i carrarmati, la guerra combattuta sul territorio, l’invasione e la tragica uccisione di migliaia di civili) determinerà il futuro. Ed è proprio in questa prospettiva – di flusso temporale che contempli non soltanto l’attimo presente ma lo collochi tra il passato e il futuro – che vanno letti i “putiniani” di casa nostra. Intanto, allargando la visuale, va registrato il “ritorno della storia”. All’inizio degli anni’ 90 un celebre politologo americano, Francis Fukuyama, ne aveva decretato “la fine”: con il crollo del muro di Berlino -sosteneva-  la storia è sostanzialmente finita, sancendo il trionfo del sistema liberaldemocratico associato alla economia di mercato; tutta la storia è una carovana che va in quella direzione. Noi occidentali siamo già arrivati alla meta. Altri – le carrozze più arretrate della carovana – ci arriveranno dopo, ma inevitabilmente.  Varcato quel traguardo la storia è finita e siamo nella post-storia. Già gli anni successivi avevano mostrato l’infondatezza di quella analisi (lui stesso l’ha recentemente ammesso), ma il mondo occidentale vi  si era cullato a lungo. Soprattutto l’Europa e gli europei hanno di fatto “praticato” nelle loro esistenze la dottrina della post storia: ciò che accade di tragico avviene dall’altra parte del mondo ancora attardata nelle vecchie contraddizioni, nei vecchi e obsoleti conflitti destinati a scomparire. Riguarda le carrozze in ritardo della carovana. Possiamo guardarle se ne abbiamo voglia attraverso le immagini televisive o gli schermi dei nostri smart phone.

Nel frattempo possiamo continuare a sonnecchiare nella confortevolezza di chi al traguardo è già giunto. È vero che qualche attentato terroristico aveva increspato quella tranquillità producendo un estemporaneo brivido, ma nella sostanza l’aria serena dell’Ovest ha continuato ad accompagnare milioni di esistenze di europei intorpiditi nella presunzione che la pace di ottanta anni si sarebbe protratta in eterno. L’invasione dell’Ucraina ha fatto saltare tutto questo. La guerra è alle nostre porte. L’Europa è in prima fila e addirittura la prospettiva di un conflitto nucleare sul nostro territorio ha cessato di essere un tabù quasi innominabile per divenire una prospettiva realistica. La Storia – Hegel la chiamava il “grande macello” –  è ritornata con la sua mano pesante e le nostre esistenze vi si sono ritrovate immerse fino al collo. E’ in questo contesto, radicalmente nuovo, che occorre collocare i “putiniani” d’Italia. La prima domanda che suscitano è ovvia: che cosa hanno in comune comunisti, reazionari, rivoluzionari, populisti   e chi più ne ha più ne metta? Che cosa ha in comune il comunista Canfora e l’ex missino conservatore Cardini, al di là dell’essere entrambi eminenti studiosi? Che cosa li fa convergere nel merito di un’analisi di una situazione geopolitica data? La risposta sta nel giudizio, più o meno esplicito, che danno del mondo occidentale. I “putiniani” dei più vari colori sono accomunati da un atteggiamento ostile nei confronti della democrazia occidentale, esattamente quella che consente loro di esprimere liberamente le proprie posizioni. A loro, non piace. E non soltanto per le nefandezze compiute dagli americani in Vietnam o in Iraq o per la globalizzazione produttrice di diseguaglianza. È che proprio non si riconoscono nei valori e nella prassi delle democrazie occidentali in quanto tali e non perdono occasione per dircelo. Quando un Orsini – sia pure nel fuoco del dibattito e della polemica – sostiene che ‘un bambino può essere più felice in una dittatura che sotto le bombe’ che messaggio sta lanciando se non la svalutazione dell’impianto stesso delle liberal-democrazie? È una posizione legittima, ma andrebbe esplicitata fino in fondo. Anche perché una sua piena esplicitazione implicherebbe un’assunzione di responsabilità, oltre che un’adeguata argomentazione. C’è da chiedersi come mai, dopo settant’anni di democrazia, vi sono ancora, armati e pronti alla lotta ad ogni occasione, tanti suoi nemici, disposti ad abbracciare ogni posizione pur di combatterla. E c’è da interrogarsi su quali culture (o sottoculture) si sono radicate a tal punto nel nostro paese da produrre ad ogni tornante degli eventi posizioni tanto radicalmente critiche da minare i fondamenti stessi del nostro mondo. È una domanda con cui sarebbe bene misurarsi e che con la guerra in Ucraina acquista tutt’altro peso. Lo scenario che ci aspetta nei prossimi decenni infatti sarà dominato da un confronto, da una competizione globale: quella tra democrazie liberali da una parte e sistemi illiberali e autoritari dall’altra. Il primo campo è il nostro; quello antagonista prende la fisionomia dei Putin e degli Xi Jin Ping, del patriarca Kirill e dell’opportunista Orban.  Tutti scommettono sulla putrescenza delle democrazie, sulla loro incapacità di affrontare le grandi questioni del XXI secolo, Le interpretano come luoghi di corruzione, di degenerazione antropologica e di devianza morale. Scommettono sul loro declino definitivo. Se questo è lo scenario che ci aspetta, come interpretare i “putiniani” d’Italia? Sono il preannuncio della crisi definitiva delle democrazie occidentali di fronte all’avanzata delle ‘democrature’ illiberali nei cui confronti, ad ogni occasione, sono così comprensivi? Le avanguardie di quei sistemi in cui proprio loro, a parti invertite, farebbero la fine di Anna Politovsjkaia e di tanti suoi colleghi? O al contrario non mostrano proprio la vitalità dei sistemi democratici, evidenziandone la capacità di assorbire il proprio contrario, garantendo spazi e visibilità proprio a chi ne contesta pubblicamente limiti e contraddizioni? Paradossalmente ma non troppo, potrebbero essere proprio loro a marcare la superiorità di quelle democrazie, di quell’Occidente che non mancano di criticare. Il vecchio Voltaire, disposto a sacrificare se stesso perché il suo nemico possa avvalersi della libertà di parola, probabilmente è meno morto di quanto sembri.