FILOSOFIA

LA TERAPIA DEL DOLORE E LA CONCEZIONE CRISTIANA DELLA SOFFERENZA

Annamaria Pacilli

Il medico deve combattere e cercare di alleviare il dolore, comportamento che affonda le proprie radici nell’Etica.

Il dolore, sia esso di natura fisica che di origine psichica, va accettato come evento ineluttabile  o va combattuto con tutti i mezzi a disposizione? Certamente il dolore è sempre stato un compagno fedele dell’uomo; sin dai tempi di Aristotele si è cercato di trovare una definizione che potesse esprimerne a pieno la complessità e di dare un senso al soffrire. Per lo stagirita il dolore rappresentava una “affezione dell’anima che allontana dallo stato di natura”, dunque un evento che complica la vita dell’uomo e toglie serenità. Nel secondo libro del De Anima1, Aristotele definisce l’anima come indissolubilmente legata al corpo, “atto primo di un corpo vivente”. Il corpo è materia, ha “la vita in potenza”, ma non è veramente vivo senza un’anima. Forse chi non sta provando dolore si chiederà che senso abbia soffrire, perché conserva l’obiettività che consente l’interrogarsi sulla sofferenza umana, mentre chi lo sta sperimentando non si chiede il senso, ma si augura che passi il più velocemente possibile. Il dolore fisico e psicologico, fanno sentire prigionieri chi li prova: il dolore fisico può far sentire il corpo ingabbiato in una morsa che sembra non mollare mai la presa. Il dolore psichico attanaglia la mente, rendendola priva delle energie capaci di spostare l’attenzione su altro che non sia il proprio dolore. Risulta difficile comunicare il dolore: quando è lieve, può ancora essere verbalizzato, se grave può non esprimere la propria intensità. Fondamentale instaurare tra medico e paziente una relazione terapeutica basata sulla fiducia e sull’affidarsi, atto che consenta di esprimere quanto si prova, compreso il dolore. Il dolore, qualunque sia, si conserva nel ricordo: la mente custodisce nel tempo le tracce mnesiche del passaggio della sofferenza. Il medico deve combattere e cercare di alleviare il dolore, comportamento che affonda le proprie radici nell’Etica. In ambito religioso cristiano, il dolore ha sempre avuto una sua particolare collocazione e attraverso la fede si è cercato di spiegare all’umanità sofferente il senso del suo soffrire, senza mai proporre la possibilità di eliminarlo, ma piuttosto di  sublimarlo.2 Il dolore in senso religioso rappresenta l’affermazione della propria esistenza davanti a Dio. Questa concezione, nei tempi più moderni si è andata trasformando, anche grazie ad un migliore ‘colloquio’ tra fede e medicina, che propone l’affermazione della dignità umana tramite la diminuzione, se non l’eliminazione del dolore. Tuttavia la teologia cristiana valorizza il dolore, soprattutto quello della fase finale della vita, in cui l’anima si distacca dal corpo, poiché assume un significato antropologico e salvifico: attraverso la grazia si ottiene l’amore. Se è impossibile ipotizzare la totale assenza di dolore, un dolore fisico intollerabile perché oggettivamente raggiunga soglie alte, o perché soggettivamente risulti insopportabile, può e deve essere eliminato. Non dimentichiamo che: “il dolore è quello che il malato dice sia, e non quello che gli altri credono dovrebbe essere” 3.

E’ pur vero che la sintomatologia dolorosa acuta rappresenta una guida per formulare la diagnosi e che, se nascosto, può impedire la diagnosi stessa, come è anche vero che le procedure diagnostiche possono essere causa di dolore. Nelle sintomatologie dolorose ad andamento cronico e su quelle oncologiche in fase terminale, quando il dolore non può essere espresso con la voce, accade che venga espresso con la mimica e con la gestualità o con lo sguardo, che spesso implora di porre fine a quella sofferenza. Il dolore è uno dei parametri che misurano la qualità di vita e  il rispetto della libertà e della dignità della persona vanno di pari passo. Il dolore impone di concentrare su di sé tutte le attenzioni, non concede tregua e chi lo sperimenta anche solo per un breve periodo riesce, tramite un aiuto farmacologico, ad esserne sollevato, a distrarsi e questa è già una piccola conquista. Ci sono casi in cui il dolore non viene riferito dal malato, nel timore degli effetti collaterali o di dipendere dai farmaci e preferisce tollerare la sintomatologia dolorosa. Esistono altri casi ancora, in cui il dolore sia autoinflitto: accade in alcuni disturbi della personalità, in cui ci si provoca ferire come tagli, bruciature, contusioni; questi pazienti non provando sentimenti di gioia, non percepiscono il corpo, come se fossero anestetizzati, quindi attraverso il dolore si sentono vivi. Nel Codice Deontologico è scritto che:“Dovere del medico è [….] il sollievo della sofferenza nel rispetto della libertà e della dignità della persona umana [……] “ 4 e che l’azione terapeutica non rappresenta un singolo atto, ma il risultato di una sinergia tra conoscenze scientifiche, tradizioni culturali (sia del curante che di colui che è curato), storie di vita, ambiente. In conclusione, quando si parla di dolore il punto di osservazione non può mai essere unilaterale.  Se esso è di origine fisica, non può essere trascurato nelle sue correlazioni psicologiche, se origina dalla psiche, non si può tralasciare che ne possano derivare somatizzazioni corporee. L’attenzione alla sintomatologia non può prescindere dalle componenti morali, sociali, religiose, culturali della persona e se esso non è eliminabile totalmente (sedare dolorem), non vuol dire che si debba accettare la sofferenza. Alla medicina si richiede di fare di tutto per guarire, per prolungare la vita, spesso a discapito della qualità della vita stessa. Probabilmente si fa fatica ad accettare la morte come evento ineluttabile, al quale siamo destinati sin dalla nascita, come se la medicina dovesse assicurarci l’immortalità, che un tempo si chiedeva alla religione; le cure mediche devono invece accompagnare verso la morte, in modo sereno e indolore.

Riferimenti bibliografici

  1. Aristotele, L’anima, a cura di Marcello Zanatta, Roma, Aracne, 2006
  2. Chapman CR, Gavrin J. Suffering; the contribution of persistent pain. Lancet 1999; 353: 2233-7
  3. Cit. in Luca Borghi, “Quando la medicina diventò grande (grazie anche a Sir William Osler)”[Prefazione]. in W.Osler, “L’evoluzione della medicina moderna”, EdiScience, Floridia-Roma (2010) pag. 5-23.
  4. Art.3 del Codice di deontologia  medica 2006

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