CALLIOPE

IL ‘900, PAROLE E LINGUAGGIO

Maurizio Merlo

La mia rozzezza intellettuale aspettava l’ultimo colpo che avvenne quel giorno.

Il linguaggio costituisce mente e anima di una comunità, dei suoi rapporti materiali, civici ed economici. Se le parole tacciono, se il linguaggio cessa di comunicare idee, regole condivise, terreni di ricerca, spinte al cambiamento, le relazioni sociali si bloccano, e la comunità perde la sua trama. Ciò avviene fra membri di una o più classi dirigenti, negli ambienti professionali e di lavoro, fra classi dirigenti e popolo, e quando cessa la comunicazione va in crisi lo stesso sviluppo dei progetti di direzione e di governo. Una classe dirigente capace produce dunque cultura e linguaggio sociale, le parole giuste, quelle che riempiono il silenzio, solo così potrà aspirare a dirigere e a governare una comunità, una civitas, diversamente tutto entrerà in una fase di crisi e di non controllo. Il linguaggio e le sue parole, il loro uso sono dunque temi di grande centralità per costruire nella società e nel mondo della produzione, delle istituzioni, delle formazioni intermedie, una comunicazione capace di costruire relazioni forti e coesione. Giunto a Torino dalla mia Sicilia nell’autunno del 1972 iniziai gli studi universitari di Giurisprudenza. Decisivo per la mia formazione fu l’incontro con il prof. Uberto Scarpelli, gli devo molto sul piano formativo ma anche su quello umano. Frequentavo con lui il corso di Filosofia del diritto e quello di Analisi del linguaggio politico, a Scienze Politiche. Mi introdusse alle lezioni di Norberto Bobbio che divenne, negli anni successivi, il mio più autorevole riferimento politico-culturale, liberandomi dalle scorie e dalle semplificazioni della sinistra di quegli anni, dai miei segni profondi della nevrosi anti-mafiosa. Scarpelli e Bobbio mi ricondussero alla formazione familiare che era stata cattolica e socialista. Mitica fu l’Aula 14 di Scienze politiche, quella dei nostri incontri, un piccolo tempio della cultura nazionale. Bobbio finiva la lezione di Filosofia della politica alle 12, indimenticabili quelle lezioni dai suoni perfetti: la voce profetica e musicale di Bobbio, i disturbi tecnici dei tanti registratori in aula e il silenzio assoluto e rispettoso di fondo. Alle 12 nella stessa aula iniziava il corso di Analisi del linguaggio politico di Scarpelli. Talvolta il mio indimenticabile maestro arrivava puntuale, rinunciando al rituale quarto d’ora accademico, era evidente che lo facesse per scambiare due chiacchiere con l’illuminato. Li guardavo a bocca aperta, per me ragazzo di 19 anni era immenso l’impatto con la cultura liberale e socialista, vederli parlare insieme quel linguaggio semplice e gentile. Scarpelli fu il primo a proporre Karl Popper in Italia ed io iniziai a leggere il grande filosofo ed epistemologo austriaco. E poi le lezioni di umanità di Scarpelli, una fra tutte fu decisiva.

Mi ero intestardito a portare all’esame una tesina su Andrey Vyshinsky, uomo di Stalin, teorico del diritto sovietico, pubblico ministero dei processi moscoviti negli anni ‘30. Il mio stalinismo interiore senza radici culturali e familiari si stava da tempo frantumando sugli scogli delle esperienze di vita e degli studi, le fondamentali letture di Mondo Operaio, dove Bobbio educava borghesia e classe operaia al pensiero liberalsocialista, i confronti con l’altra rivista teorica della sinistra Rinascita. La mia rozzezza intellettuale aspettava l’ultimo colpo che avvenne quel giorno. Durante l’esame argomentavo l’opera del dirigente stalinista, il clima fra i miei colleghi era assolutamente ostile, il silenzio marcava la pochezza della mia trattazione, Scarpelli mi osservava tranquillo, un sorriso leggero da grande uomo di pensiero. Alla fine mi promosse, contro ogni mia previsione. Un 30 e lode, a premiare, credo, l’impegno profuso. Quel linguaggio premiale fu per me un esempio al quale seguì la maturazione di un mio personale senso di inadeguatezza, quel voto aveva rappresentato una scossa, uno di quei fallimenti della vita che diventano vittoria. Fu l’inizio della mia più autentica formazione intellettuale e politica. Il linguaggio non è mero strumento di comunicazione: è metodo di ricerca, postura intellettuale e morale, percezione dei cambiamenti, tolleranza, rispetto ed esempio. Durante il ‘900 gli studi sul linguaggio divennero centrali per fondare un nuovo approccio ai temi del metodo cognitivo. La “grande divisione” fra mondo dei fatti e delle opinioni, fra “proposizioni descrittive e direttive”, fra “dimensione dell’essere e del dover essere”, fra “cognitivismo e non cognitivismo”. E poi le nuove scuole della scienza, autori come L. Wittgenstein nella linguistica, K. R. Popper nella teoria della falsificazione, T. Kuhn in quella delle rivoluzioni scientifiche, e poi A. Einstein e la sua teoria della relatività, i neurofisiologi cileni, Humberto Maturana e Francisco Varela che dettero vita alle teorie sul sistema autopoietico, ed Ernst von Glasersfeld e i suoi studi sulla psicologia. Tanti altri autori eccellenti segnarono i confini del nuovo metodo scientifico e dell’epistemologia. Gli effetti sulla teoria del linguaggio furono evidenti, si passò nella parte centrale del secolo, da un’epistemologia del “Che cosa conosciamo?” a quella del “Come conosciamo?”. Il linguaggio, in quanto strumento della conoscenza, diventò l’asse centrale del metodo cognitivo. Perse significato la rappresentazione delle realtà oggettive e immutabili e si manifestò quella dei mondi in continuo cambiamento, mutarono la natura dei fenomeni, le teorie scientifiche, le tecniche di osservazione, le menti stesse degli osservatori, e quindi i linguaggi iniziarono a seguire il perenne movimento delle realtà complesse.