EDITORIALE
ZAN, COVID, BARBERO E LE NOTIZIE IN FONDO AL MARE
Guido Barosio
I quotidiani garantivano una pluralità di visioni affascinante.
Siamo (apparentemente) nell’era della copertura globale e in tempo reale, di tutto ciò che accade. La rete e i social sembrano garantire la più grande rivoluzione dell’informazione dai tempi di Gutenberg. Sfioriamo il tasto di Google sullo smartphone e piombiamo immediatamente su ogni argomento desiderato. È tutto lì, davanti a noi, in un attimo. E camminiamo risoluti verso il futuro perché sappiamo tutto. Ma in realtà siamo solo prigionieri della Grande Illusione, come al Circo Barnum, godendoci semplicemente (inconsapevoli) il più grande spettacolo dopo il Big Bang e poco più. L’utente del nuovo millennio è sicuramente meno (e peggio) informato di chi lo ha preceduto. Nel 1980 ne sapevamo di più e conoscevamo meglio sia lo scenario che i suoi protagonisti. Quello fu l’anno dell’apice di un epoca – iniziata nel 1960, con la televisione diffusa nelle famiglie e non solo più nei luoghi di intrattenimento – che terminò nel 1991 con la guerra in Kuwait, la prima vista attraverso gli occhi degli uffici stampa, coi giornalisti lontani dal fronte. Nel trentennio preso in esame avvennero passaggi strategici: massima diffusione dei quotidiani a livello mondiale, diffuso successo dei settimanali di approfondimento, consolidamento di una equazione formidabile: la televisione in ogni casa, una radio in ogni dove (in tasca, in macchina…), una capacità ancora inadeguata della politica e dell’economia di condizionare (e controllare) la sostanza delle notizie. Eravamo molto più liberi, anche se non lo sapevamo. In Italia, nel 1985 (e fino al 1990), si toccò il record di 6.800.000 copie di quotidiani venduti, mentre oggi siamo sotto quota 4 milioni. Furono gli anni del boom per le emittenti private, prima locali, poi locali + nazionali. Il rito serale (e in misura minore alle 13) era quello del TG, che ci metteva tutti di fronte al piccolo schermo per conoscere e commentare. Ogni psicologo vi racconterà di come l’informazione sia più pervasiva quando arriva a un ora prefissata (il giornale del mattino o il telegiornale ad ore prefissate) rispetto alla ‘fruizione libera’, perché ‘guardo e leggo quando voglio’ sovente innesca superficialità e distrazione. Ma non si tratta solo di consuetudini sociali, le notizie nel trentennio 60/90 erano date in modo migliore ed erano sostanzialmente verificabili. Per rendersene conto è sufficiente sfogliare i quotidiani di allora: servizi più approfonditi, meglio commentati, arricchiti da commenti autorevoli e – soprattutto – forti di una ‘presa diretta’ che via via è andata svanendo. Quando racconto la storia dei media nei miei master di comunicazione invito a leggere tre nomi che hanno fatto la nostra storia: Indro Montanelli, Oriana Fallaci ed Enzo Biagi. Viaggiavano e conoscevano il mondo, erano il ‘Testimone del tempo’ (dal titolo di un libro imprescindibile di Biagi stesso), intervistavano i protagonisti del mondo fissandoli negli occhi, erano eticamente risoluti, colti e curiosi, divulgativi perché sapevano parlare a tutti. La scansione temporale era perfetta: radio e tv parlavano all’oggi, il quotidiano descriveva il giorno seguente, i settimanali inquadravano il tema e approfondivano. Quei settimanali che oggi sono tutti scomparsi: Epoca, Oggi, L’Europeo…i maggiori. I quotidiani garantivano anche una pluralità di visioni affascinante: L’Unità del PCI (defunto), Il Manifesto (ridotto a un lumicino), Il Secolo d’Italia del MSI (c’è solo più on line). Ogni testata era concepita con una struttura solida e ordinata: esteri, interni, cultura, economia, sport… Era un sistema che raccontava l’Italia e il Mondo a una platea che imparava a conoscere ciò che accadeva. I due siluri che lo hanno affondato sono stati: la progressiva mancanza degli inviati sul campo (fotografi e giornalisti), l’invasiva presenza degli uffici stampa che si frappongono tra la notizia e il giornalista. Il primo problema ha radici strutturali (i giornali hanno meno budget, quindi meno dipendenti, ma anche più fretta, un combinato composto allarmante) che trovano una doppia soluzione: il ricorso alle grandi agenzie come Associated Press, Reuters, l’italiana Ansa, France-Presse… e l’interpretazione di quello che arriva dalla rete, non certo verificabile ma utilissimo, perché immediatamente disponibile. Così quasi più nessun quotidiano ha il proprio inviato sul posto, nelle grandi capitali, ad annusare l’aria del mondo dove soffia il vento. Vince il riciclo e le notizie escono tutte uguali, spesso prive di qualsiasi approfondimento o spunto critico. Volete un esempio? Stiamo vivendo la più grande pandemia degli ultimi cento anni ma sappiamo, oggi, cosa sta accadendo in Brasile? In Australia? Nei paesi arabi? Abbiamo qualche numeretto ballerino e, se non andiamo bene a cercare, ci sfugge anche l’aggiornamento di Cina, Francia, Russia e Stati Uniti. Ma il giornalismo degli ‘inviati scomparsi’ non ci racconta più l’anima dei luoghi e delle persone, mancano totalmente (o quasi) i reportage (cultura, cibo, vissuto quotidiano, moda, arte…), non conosciamo cosa accade nella vita quotidiana di New York e Londra, di Buenos Aires e Berlino. Siamo utenti bendati con un telefono in mano.
La notizia che ci colpisce come un sasso in mezzo alla strada costa poco e si vede. Dicevamo degli uffici stampa (ho sintetizzato una definizione che prende in realtà nomi diversi), soggetti sempre più condizionanti e autorevoli che forniscono una versione dei fatti di parte, talvolta con efficacia elevatissima. Si trovano ovunque – politica, economia, sport… – e fermano il giornalista sulla soglia della realtà, giusto un passo prima, per fornire elementi che non sono raggiungibili in altro modo. Oggi le interviste della mia trimurti (Montanelli, Fallaci, Biagi) sarebbero tutte impossibili, oggi un campione dello sport parla quando vuole l’ufficio stampa e dice solo quello che deve dire. Bandito il contatto diretto. Simbolicamente tutto iniziò nella guerra con l’Iraq del ’91. Mi rimase impressa quella successione di esplosioni sempre uguali (perché era la medesima esplosione rimandata e ancora rimandata…) che invadeva gli schermi televisivi. I giornalisti erano accomodati sotto una tenda e ricevevano il bollettino quotidiano. A vedere cosa era successo si andava dopo. Forse. Ma adesso è il momento di cominciare valutare le conseguenze, perché se l’informazione ‘è brutta’ (bad price = bad news =ignorance, questo l’algoritmo) otteniamo un utente superficiale, arrogante, animoso, saccente. La notizia (già di per sé breve, incompleta, tarata solo sui toni alti) letta frettolosamente al telefono, innesca rapidamente una reazione istantanea, emotiva, all’insegna di ‘adesso dico la mia’. Esempio recente? La polemica legata alle donne e allo storico Barbero, la seconda riferita allo stesso personaggio dopo quella sul green pass. Nelle sue dichiarazioni Alessandro Barbero si pone una domanda senza legittimare una risposta, senza affermare nulla di sessista. E lo fa all’interno di un discorso argomentato, per nulla antifemminista o antifemminile. Le reazioni piccate e feroci, anche da parte di chi, intellettualmente più strutturato, non dovrebbe scivolare nello stile e nei toni, non si sono fatte attendere. Barbero demolito e senza diritto di replica. Interessante la replica di Alessandro Cattelan: “Ormai capiamo solo gli hashtag. Se ne vediamo su alcuni argomenti che sono diventati ipersensibili, non capiamo più niente del discorso e del contesto, e ci incazziamo. Non si può essere arrivati al punto in cui non ci si può più nemmeno domandare una cosa. Già la domanda è lesa maestà. Si è attaccato Barbero senza capire cosa avesse detto. Internet genera mostri di violenza, ci sta devastando il cervello”. Bravo. E aggiungo, c’è un gusto particolare nel demolire l’autorevolezza e la cultura – Barbero come Burioni – perché la bad news e la rivoltella sempre carica dei social mettono tutti nel medesimo Far West: sei colto? Sei ricco? Sei affermato? (vedi la Ferragni)? Hai potere? (Draghi oggi piace meno che in primavera…) E allora ti sparo contro il mio fango alla prima occasione. Anche intere nazioni cadono in questa spirale. Oggi, ad esempio, tocca all’Inghilterra. Negli ultimi giorni ho letto che in UK manca ovunque la benzina, scarseggiano i medici e gli insegnanti, i supermercati sono vuoti, i teatri deserti e siamo quasi alla rivolta. Peccato che non sia così, ho viaggiato sette giorni in Gran Bretagna e non ho assistito a nulla di tutto questo. Forse avessimo ancora qualche inviato sul posto non si scriverebbero certe madornali fesserie. Bad news e ignoranza anche per la legge Zan. La sua bocciatura in senato ha portato alla rivolta del mondo LGBT, che considera la sconfitta come la messa in pericolo dei diritti di tutta una comunità. Nell’ordinamento giuridico italiano, riconosciuto tra i migliori al mondo, ogni reato contro la persona (e anche la religione, le preferenze sessuali…) è già ampliamente contemplato, mentre la discussione era se sanzionare, o meno, comportamenti specifici. A mio personale giudizio la libertà si misura anche evitando di delineare ‘categorie protette’, emarginate proprio quando le si vuole difendere. Se non la si pensa allo stesso modo in democrazia ci si conta, ed è quello che è avvenuto. Così c’è chi ha vinto e chi ha perso. Ma di cosa si è discusso nel ring dei social: degli strepiti dei vincitori, dei ‘traditori’ che hanno votato contro grazie al voto segreto… Il voto segreto è diventato il male. Quel voto segreto che esercitiamo ogni volta per scegliere sindaci e onorevoli. Già, perché invece, come su Facebook, dovrebbero contare solo like, meme e insulti tirati con la fionda. Nel trentennio aureo dell’informazione, era il 1974, si celebrò il referendum sul divorzio: pagine di articoli, interviste, approfondimenti, le tribune politiche dove i contendenti si guardavano negli occhi e non si interrompevano mai. Allora, come oggi, un tema di coscienza. Allora un teatro privato e sociale dove ci si accomodava, oggi la giungla di Tarzan senza Tarzan, purtroppo. Forse vigilare ed ammonire non basta più. Serve un riscatto in grado di alzare la voce, perché avevamo un futuro, ma è dietro le spalle.