GIORNALISMO

UN GIORNALISMO INCAPACE DI AUTOCRITICA

Anna Antolisei

In Italia questi poteri risultano, purtroppo, molto più forti che in altri 40 Paesi.

Siamo alle solite. Malgrado la più prestigiosa agenzia di monitoraggio della democrazia nel mondo, l’americana “Freedom House” abbia smesso dall’inizio degli anni 2000 di pubblicare la classifica dei Paesi più meritevoli nel campo della completezza e dell’attendibilità dell’informazione, ecco che arriva puntuale “Reporters Sans Frontiers” (Reporters Without Borders) a inchiodare l’Italia al posto che merita: o, quantomeno, al livello stimato dagli osservatori stranieri. Poiché più basso è il punteggio assegnato, minori sono le pressioni che la stampa nazionale riceve dall’esterno, è un pessimo segno che l’anno 2021 ci veda al 41esimo posto della classifica, cioè ben al di sotto dei 27 Stati membri che fanno capo all’Unione Europea. Ma vediamo di quali aspetti tiene conto la classifica. Sono preminenti le influenze legali, politiche ed economiche, e la graduatoria dipende dagli influssi che contribuiscono a decidere ‘come’ i giornali pubblicano le notizie. In Italia questi poteri risultano, purtroppo, molto più forti che in altri 40 Paesi. Significa che, qui, le redazioni sono troppo piegate all’editore e ai suoi personali interessi rispetto a ciò che accade nel resto d’Europa. Giusto per fare un po’ di storia, risulta che nel 2004 ci venivano assegnati 33 punti: nel 2005 e 2006 la situazione peggiora e arriviamo a 35. Poi aumentano ancora le influenze politiche fino a sfondare la soglia delle quattro disonorevoli decine, facendo non solo peggio di tutti i Paesi della UE, ma persino di nazioni africane come il Botswana e il Ghana. Decida poi il lettore se consolarsi sapendo che in qualcosa siamo primi assoluti: secondo l’organizzazione britannica “Index on Censorship”, infatti, segniamo un record nella classifica del 2018 per le intimidazioni ai giornalisti. Vero è che l’avere oggi una ventina di cronisti sotto scorta, minacciati dalle mafie, influisce molto sulla valutazione; così come incide la posizione di precarietà dei molti free lance, e non solo, che lavorano senza essere contrattualmente inquadrati nel loro ambito professionale; ma come la mettiamo con la riscontrata “manipolazione” della verità?  Partendo dall’ovvio presupposto che, senza un’adeguata rappresentazione del contesto politico-economico-sociale del Paese il cittadino non può possedere i necessari strumenti per formarsi un’opinione corretta sulla realtà vigente, e tanto meno è invogliata a offrire la sua partecipazione alla vita pubblica, c’è poco da stupirsi per il crescente assenteismo nella chiamata alle urne, per il distacco sempre maggiore tra il mondo istituzionale e la gente comune, per il diffondersi di certe esasperate derive anarcoidi o complottiste.

Eppure, i responsabili delle varie testate non si mostrano mai disponibili ad offrire, a chi usufruisce del loro servizio, un’analisi onesta di quali siano i veri mali che portano tanto in basso la qualità dell’informazione italiana. Già, ma cosa dovrebbero ammettere, gli addetti ai lavori, nella speranza di riguadagnare la stima di chi li considera ormai degli inaffidabili, se non mendaci, tesserati della comunicazione; degli sfruttatori di notiziole strappalacrime sbandierate ad hoc per sottrarre spazio a ciò che davvero sarebbe utile divulgare? C’è del marcio in ciò che dovrebbero riconoscere, e si sa che i panni sporchi vanno lavati in casa; oppure non si lavano affatto se una radicale confessione comporta il discredito di un’intera categoria: in un crescendo, per giunta, direttamente proporzionale all’importanza dei media sotto esame. Dovrebbe forse ammettere, il giornalismo, le frequenti censure imposte dai “padroni”, dai sovvenzionatori politici o imprenditoriali che ne pagano gli stipendi? Si sentirebbero in regola rivelando i sistemi di assunzione usati nelle redazioni a suon di raccomandazioni dei signorotti del potere? Oserebbero esigere ancora i finanziamenti di Stato (in alcuni casi smodati, al limite del ridicolo in proporzione al serbatoio dei consumatori) quando diventasse di pubblico dominio l’asservimento dei media ai maggiorenti di turno? Resta da vedere, a fronte di queste coscienze poco adamantine, cosa potremmo o dovremmo fare noi, usufruttuari di un servizio tanto inquinato. Chiedere l’abolizione dell’Ordine dei Giornalisti come per primo, ma non certo per ultimo, domandò Luigi Einaudi nel lontano 1945 (Albi di giornalisti! Idea da pedanti, da falsi professori, da giornalisti mancati, da gente vogliosa di impedire altrui di pensare colla propria testa”)? Fare uno sciopero a tempo indeterminato del consumo d’informazione? Cercare le notizie solo sulle testate e sui media stranieri? Sono soluzioni improponibili che penalizzano, ancora una volta, più i vessati che i vessatori. Per cui? Per cui non resta che chiamare in causa la salvifica diffidenza e cercare ogni notizia e ogni approfondimento su più e più fonti, di diverso colore e differente origine; evitando con cura le pubblicazioni che appaiono sulla Grande Rete senza logo e titolo di un network già bene (e seriamente?) accreditato. La conclusione resta comunque desolante: siamo un popolo condannato all’ignoranza, quantomeno parziale, della verità. Non resta che supplire attraverso l’equilibrio individuale e il vecchio buon senso, virtù tanto cara ai nostri nonni che, nell’universo dei millenials, sembra essersi tristemente dissolta.