EDITORIALE

UCRAINA, TRA MALASTORIA E MALAINFORMAZIONE

Guido Barosio

La Russia non ha mai avuto elezioni democratiche come le intendiamo noi, ma neppure l’Ucraina.

 La società globale della comunicazione ha battuto un altro colpo a vuoto, dopo la pandemia del 2020 (e oltre), è la volta della guerra per l’Ucraina, che ci auguriamo sia molto più breve e meno letale. Ma il parallelo tra la gestione mediatica delle due situazioni fa amaramente riflettere. L’homo communicator del terzo millennio vive la più grande rivoluzione dai tempi di Gutenberg: mai diffondere notizie e commenti è stato così facile e poco costoso, più della metà della popolazione mondiale dispone di uno smartphone in grado di recepire immagini e video in tempo reale, come innescare commenti altrettanto rapidi. Questa è la comunicazione invasiva e binaria che prende il potere quando si alza la posta, quando la crisi diventa universale. Ma la conseguenza più evidente è una malainformazione fatta di stereotipi, giudizio frettolosi, falsità più o meno finalizzate ad un obiettivo stabilito a priori. La semplificazione aiuta a stabilire giudizi che non hanno nulla dell’autorevolezza, ma che ci fanno sentire depositari di una verità altrimenti irraggiungibile per i tempi e gli elementi a disposizioni. Perché le crisi universali sono complesse per definizione, in molti casi sorprendenti, difficili da interpretare se non si conosce la genesi dei fatti, sovente nascosta, in molti casi occultata. E in più sono azzardati da ipotizzare i tempi di una possibile soluzione, sperimentabile solo col passare del tempo. La semplificazione non è solo un rischio accertato, ma una trappola che inquina le opinioni, perché divide il mondo in colpevoli e innocenti, in giusti e dannati, in esperti (presunti) e giustizialisti pronti a condannare. Altro elemento su cui ragionare è l’interesse totalizzante ottenuto dalla nuova crisi a discapito della precedente. Dopo mezzora di missili nel cielo dell’Ucraina il covid era già andato in soffitta: spariti virologi, scomparsi i no-vax, cancellate le tabelle di contagiati e deceduti, i provvedimenti governativi ridotti ad una schermaglia di retroguardia. Perché l’homo communicator ha improvvisamente cambiato lavoro, da presunto esperto di pandemia a stratega, politologo dei conflitti, esperto di diritti umani e diplomazia. Come nell’era covid si è rivelato importante stabilire subito un colpevole. Quelli precedenti ormai li conosciamo bene: i Cinesi (che hanno lasciato scappare il virus e forse lo hanno creato loro), i virologi (che non hanno capito niente e non si mettevano mai d’accordo), quelli che uscivano troppo assembrandosi, quelli che uscivano troppo poco perché pavidi, i no-vax (trogloditi), i provax (nazisti)…E’ andata male anche a chi auspicava una Norimberga finale, perché tra poco nessuno farà differenza tra vaccinati, guariti e vaccinati ammalati, ora si parla di un possibile terzo conflitto mondiale, volete mettere? Spezzano l’accerchiamento delle crisi universali solo rari (e benedetti) eventi sportivi: qualche medaglia olimpica, la mamma della Brignone che strilla contro la Goggia, Vlahovic in bianconero, un campionato che si deciderà all’ultimo e in mondiali in Qatar, che se non ci andremo finiranno dritti dritti nella pagine delle tragedie. Ma torniamo al dramma dell’Ucraina. Anche in questo caso il nemico ci abbiamo messo poco a trovarlo: con quello sguardo gelido, con quell’espressione monotamente accigliata, col fare perennemente minaccioso, Putin è perfetto. A questo aggiungiamo le reminiscenze della guerra fredda e il gioco è fatto. L’homo communicator del terzo millennio non ha tempo per pensare, caso mai lo fa dopo, innanzitutto agisce e giudica. Così sbaglia. Perché la storia e la politica internazionale sono materie complesse, ed implicano la conoscenza e lo studio del diverso, e il rispetto del diverso, prima ancora del timore. Senza questo è guerra sempre, e si spara alla prima ombra che si muove nel prato. Quando il mondo era diviso in blocchi contrapposti – e l’uomo non ancora prigioniero degli strali del web – ci si affidava a chi sapeva mediare, e per mediare aveva le conoscenze. Il maestro di quest’arte fu Henry Kissinger, che di terze guerre mondiali ne seppe evitare ben più di una, ed i russi non erano certamente più amichevoli. La prima regola della diplomazia classica è che la pace la si fa direttamente coi nemici, guardando, anche cinicamente, agli interessi reciproci, a quello che non si vuole perdere prima ancora che a quello che si vuole (e non si può) conquistare. Faccio una premessa: la mia non è una difesa (né una giustificazione) dell’invasione armata in Ucraina. Chi spara, uccide e ammazza è sempre un barbaro da condannare. Ma se non comprendiamo quello che sta accadendo (e perché) non risolveremo proprio nulla e peggioreremo le vicende di una tragedia annunciata. Una tragedia che poteva essere evitata prima. L’Ucraina è una realtà geografica e storica tutt’altro che omogenea, tanto che, etimologicamente, il suo nome significa: ‘limite’, ‘bordo’, ‘margine’, ‘confine’.

Per quasi tutta la sua storia l’Ucraina fu divisa e governata dalla confederazione polacco-lituana, dall’impero asburgico (due imperatori furono proclamati a Leopoli), da quello ottomano e dalla Russia degli zar. Quindi, storicamente, l’unità dell’Ucraina non esiste. Dopo la seconda guerra mondiale venne fondata una repubblica di Ucraina che divenne subito membro fondatore dell’Unione Sovietica, quindi non si trattò di una invasione ma di un passaggio epocale e condiviso che portò all’URSS. Va ricordato che i confini interni alla Russia sovietica furono sostanzialmente simbolici e geografici, senza una particolare attenzione per le etnie e le popolazioni. Molte repubbliche erano ‘miste’, ospitando spesso componenti in potenziale contrasto tra loro. La situazione collassò con il crollo del comunismo e l’indipendenza raggiunta dagli ex stati federati nel 1991, tra cui l’Ucraina. Va anche ricordato che, durante il secondo conflitto mondiale, il paese fu occupato dalla Germania ed ospitò numerose formazioni paramilitari naziste, sostanzialmente le medesime che ancorano oggi sostengono il governo di Kiev in funzione antirussa. Oggi l’Ucraina è un paese diviso, politicamente e geograficamente ‘male impostato’ nell’era sovietica, dove oltre il 30% è russo, ma dove la grande maggioranza della popolazione parla il russo come lingua quotidiana. Sono storicamente (e risolutamente) russe la Crimea (già occupata da Putin nel 2014) e le due piccole repubbliche del Donetsk e del Lugansk, dove le vessazioni e le repressioni del governo di Kiev sono costanti da anni. La Crimea ha votato al 98% l’adesione alla Russia, ed è probabile che analogo risultato si otterrebbe negli altri due territori separati. Ma tutto va collocato nel modo di fare e di intendere la politica dell’ex impero sovietico. Mentre la tradizione democratica europea ha radici solide qui stiamo parlando di terre che sono passate dallo zarismo al comunismo, per approdare a un sistema governato da oligarchie senza scrupoli. La Russia non ha mai avuto elezioni democratiche come le intendiamo noi, ma neppure l’Ucraina, dove non sono mancate rivoluzioni e colpi di mano. Non va dimenticata, in questa lettura dei fatti, la strage di Odessa del 2014, quando i paramilitari filonazisti e filogovernativi massacrarono oltre 50 persone che manifestavano contro il governo.  Da diversi anni la situazione è drammaticamente al di sopra del livello di guardia e l’Europa ha costantemente ignorato che la pace deve passare attraverso una ridefinizione dell’Ucraina come stato nazionale, che solo se ‘liberata’ dalle sue componenti russe – etniche e geografiche – può trovare un cammino sereno verso l’Europa ed una stabilità di confini col preoccupante vicino settentrionale. La questione della neutralità è un altro passaggio inevitabile e auspicabile. Quando ci si trova al confine tra due sistemi serve equilibrio, sensibilità e anche astuzia. Per anni la Finlandia su risolutamente neutrale, salvando gli equilibri del continente ed ottenendo indubbi vantaggi economici e diplomatici. Questa è la sola strada. Aggiungo una considerazione di carattere statistico, l’Ucraina, nonostante la formidabile ricchezza di materie prime, è solo al settantaquattresimo posto mondiale per indice di sviluppo. Questo governo che si erge a paladino della libertà si è costantemente rivelato fallimentare dal punto di vista della gestione economica. L’ingresso dell’Ucraina nell’UE sembra al momento un auspicio puramente demagogico, per nulla giustificato dalla realtà dei fatti in questa contingenza storica. Oggi dobbiamo evitare che la malastoria e la malainformazione dispieghino il vessillo di un pacifismo generico e qualunquista, dove il cattivo è l’orso russo mentre la vittima è la democratica Ucraina. Così tutto diventa apparentemente facile: si illuminano i monumenti, si scrive ‘no war’ sui manifesti sollevati in piazza, si spara qualche post lacrimoso ed indignato, dopo si torna a casa, in quella casa dove non vorremmo mai vedere le bollette aumentate, come non vorremmo mai vedere i nostri soldati partire per difendere Kiev. Il pacifismo di questi giorni è un pacifismo da operetta, del quale non siamo certo pronti a pagare il conto. In un modo strettamente connesso la prima ad essere connessa è l’economia, che non può essere condizionata dall’emotività dei social e degli strateghi da tastiera. L’Europa deve chiedere con forza che tacciano le armi, barbare per definizione, quanto inadeguate a risolvere ogni controversia. Ma l’Europa deve anche cogliere questa drammatica contingenza per capire che non c’è unità senza difesa comune, diplomazia pragmatica e costruttiva, capacità di dare ai propri valori una visione di futuro e di governo. Dialogando col diverso per soluzioni durature.

VIAGGI

IL VIAGGIO COME ARTE NECESSARIA

Guido Barosio

Wanderlust significa letteralmente ‘desiderio di vagabondare’, passione irrefrenabile per il viaggio e per tutto ciò che al viaggio si collega.

L’uomo è una specie nomade e questo ha segnato il suo destino. La start up africana lo ha portato, in un percorso di milioni di anni, a spostarsi per strette necessità alimentari attraverso i continenti. Raccoglitore e cacciatore doveva muoversi, solo la scoperta dell’agricoltura, molto più tardi, rese interessante l’insediamento. Ma neppure troppo. Anche dopo la conquista umana del pianeta ogni civiltà meritevole di essere ricordata ha guardato oltre, dando seguito ad un principio fondante: solo i popoli nomadi sono portatori di novità, energie, saperi e cultura. Per gli stanziali sconfitte e sottomissioni. I vincitori hanno scritto la storia: macedoni, romani, arabi, gli spagnoli e gli inglesi dei grandi imperi. Le armi sono sempre arrivate dopo l’ossessione per la scoperta: l’uomo, ‘creatura ovunque’ del pianeta, nell’epoca delle grandi esplorazioni ha marciato a ritroso, andando a riacciuffare ciò che aveva abbandonato milioni di anni prima. Necessità e ansia di dominio, ma anche patologia. L’esploratore era sovente un resoluto folle, pronto a mettersi in gioco, vita compresa, con mezzi spesso inadeguati: Colombo come Livingstone, Scott come Umberto Nobile, Pitea come Marco Polo. Persino gli astronauti americani che andarono sulla Luna sfidarono il destino accomodandosi in un capsula grande come una cantina, sotto un razzo enorme, per completare la missione su un traballante baracchino e scendere in landa selenita. A seguire il ritorno a casa compiendo il percorso inverso. Dei pazzi. Ma, oltre al DNA originario, c’è anche una spiegazione clinica, che da quel DNA originario deriva. La patologia ha per nome sindrome di Wanderlust, e significa letteralmente ‘desiderio di vagabondare’, passione irrefrenabile per il viaggio e per tutto ciò che al viaggio si collega: programmazione, desiderio, fuga, irrequietezza, cancellazione di ogni soglia nel rischio, appagamento solo momentaneo e irrefrenabile desiderio di ripartire. Gli studi sono concordi nell’identificare il ‘gene del viaggio’, denominato DRD4 7R, il recettore della dopamina D4 che regola il livello di curiosità e rende sensibili agli stimoli esterni. Il merito della scoperta va diviso tra David Dobbs e Chaunsheng Cheng. Ma la sindrome di Wunderlast era già nota, anche se non ancora classificata, nell’Ottocento. Ci furono casi di viaggiatori compulsivi che abbandonarono lavoro e famiglia all’improvviso. Una volta riacciuffati, dopo qualche settimana di tregua, ripresero la via della fuga, e così più volte, per la costernazione di amici e parenti. Eredi di Colombo e precursori di Armstrong, solo meno celebri. Ma forse l’elemento più interessante degli studi condotti recentemente riguarda il patrimonio genetico della sindrome. Perché il Wunderlast è un tratto più facilmente rintracciabile proprio nelle popolazioni che discendono dagli antichi migranti africani. Siamo quindi fronte ad una forma ereditaria che è scolpita nell’uomo a partire dai primi nomadi: i cacciatori raccoglitori che colonizzarono il pianeta. Per il viaggiatore moderno questa avventura epocale, che ha attraversato la civiltà umana come una lama saracena, si traduce in una ossessione gentile, che pare possa ammaliare circa il 20% dell’umanità.

Sin troppe cose si sono dette e scritte sulla differenza tra turista e viaggiatore. In realtà il turismo è un fenomeno schiettamente imprenditoriale, che sostanzialmente confeziona un prodotto partendo da un bisogno. Il turista abdica all’organizzazione: sceglie, compera e consuma. Il viaggio come una lavatrice, garanzia compresa. Il viaggiatore – debitore e ostaggio consenziente del Wunderlast originario – invece fa per conto suo: immagina, seleziona, mette mano all’itinerario, sceglie quello che gli serve sul mercato (come nei bazar e nei porti oceanici dei secoli scorsi), decide consapevole che può sbagliare (ma in fondo se ne frega) e poi parte come fosse la cosa più bella da fare al mondo. Per tornare torna, ma mai volentieri. Insomma, esercita una forma d’arte necessaria ai suoi bisogni. Il viaggio contemporaneo toglie e aggiunge allo stesso tempo. Anche solo ai tempi di Chatwin si partiva di meno, i tempi erano molto più lunghi ed i costi considerevolmente più alti. Il Wunderlast del XXI secolo il mondo se lo può girare tutto, sovente e a costi modesti, con la rete pronta ad offrire un grande catalogo dell’ovunque. Virus e terroristi, entrambi globali, sono le brutte sorprese in agguato. Imprevedibili, quindi inutile pensarci. Meglio oggi quindi? Anche no. Perché non si può resistere alla seduzione della ‘voyagenostalgie’. In questo momento ho tra le mani la Guide Hachette ‘De Paris a Constantinople’, edizione primi del Novecento, un mito tascabile. Delle 465 pagine solo 225 sono dedicate a Istanbul. Il resto se ne va per il viaggio: Trieste, Vienna, Budapest, Belgrado, Sarajevo Spalato, Ragusa, Atene, Salonicco, Monte Athos, e, dopo la meta principale, estensione dell’itinerario verso Cipro. Durata, un numero imprecisato di mesi. Le guide del tempo non descrivevano la meta, ma il viaggio. E il viaggio era il tempo necessario per raggiungere il luogo, un tempo fatto di soste e di conoscenze, di incontri e di esplorazioni, di tante tappe, previste e non. Le guide di allora erano capolavori di cartografia miniata, di cultura divulgata, di informazioni testate che diventavano patrimonio condiviso. Abbiamo perso per sempre quelle guide e quei viaggi sono morti con loro. Possiamo solo preservarne lo spirito e l’attitudine, comprendendo che l’aereo aiuta ma annulla, che oggi ci si muove per destinazioni senza raggiungerle apprezzando quello che sta in mezzo. Ma il viaggio sarà sempre carovana, astronave e vascello per i Wunderlast più tenaci. Ce lo rammentano i pionieri della Luna, i navigatori oceanici sui gusci di noce ed il piacere per la storia. Ma soprattutto lavora per noi DRD4 7R, quel ‘gene del viaggio’ che ci connette all’Africa vagabonda dei primi misteri. E adesso quando si parte?