FILOSOFIA

Sulle correlazioni tra Medicina e Filosofia

Anna Maria Pacilli

Non dimentichiamo che Balint sosteneva che il primo farmaco che il medico prescrive è se stesso.

Come mai gli antichi filosofi non considerano la Medicina una scienza degna di stare allo stesso livello degli altri saperi di stampo teorico-pratico, e, reciprocamente, come mai la Medicina moderna quasi rinnega le antiche pratiche empiriche e le acquisizioni teoriche? Coloro che per primi si occuparono di ‘cura’ (penso all’epilessia), avevano il dono della ‘veggenza’ e di mediare tra il mondo umano e quello divino. L’epilessia o ‘morbo sacro’ era ritenuta una forma di espiazione per coloro che si rendevano colpevoli verso gli dei. Per giungere all’episteme, e dunque al concetto di conoscenza scientifica, la medicina dovette passare per la téchne, o tecnica, che le consentì di spogliarsi della sua veste sacra e di demitologizzarsi. L’ars medica è la tecnica (dal greco téchne), che ha acquisito il medicus, colui che ha le competenze per curare i problemi della salute. Le conoscenze del medico si basano sullo studio delle cause della malattia, e quindi sui rimedi che si possono adottare per migliorare lo stato di salute del malato e su come sia possibile prevenire una malattia o le sue eventuali ricadute. Come possa intervenire il medico in questo senso, non è cosa semplice. Occorre l’occhio, sapientemente in concerto con la ragione. L’occhio rappresenta la capacità di osservazione e se un tempo l’osservazione si basava proprio esclusivamente sull’utilizzo dello strumento visivo, oggi le tecniche si sono decisamente evolute con il microscopio e le più avanzate tecnologie di imaging. Ad ogni modo, l’occhio è la metafora dei cinque sensi: il medico vede, ascolta (ausculta), palpa (l’esame obiettivo, infatti, non si basa solo sull’osservazione) e, un tempo, annusava ed assaggiava. La ragione consente, dopo l’osservazione, di comprendere ciò che si è visto, individuando le relazioni tra le cause più probabili e gli effetti visibili, così da curare le malattie nel modo più efficace possibile. Il progresso scientifico ha consentito e continua a consentire al medico di approfondire sempre di più le sue conoscenze, di fare esperienze sempre più utili per la salute e di ridurre, così, al minimo il margine di errore diagnostico. A parere di Galileo Galilei (1564-1642), l’attività dello scienziato deve basarsi su argomenti di carattere razionale, escludendo ogni pretesa di irrazionalità derivante dal mito o dalla religioni. Se, però, da un lato, le invenzioni di Galilei hanno consentito di avanzare in modo innovativo nella ricerca scientifica, le scoperte di Aristotele e della scuola alessandrina, rappresentano delle vere e proprie innovazioni in ambito diagnostico e chirurgico, a partire dalla distinzione fra vene ed arterie nell’ambito del sistema cardiocircolatorio. Troppo spesso, però, l’uomo moderno ha rinnegato le proprie origini antiche. Questo avvenne soprattutto in epoca illuministica, quando le uniche conoscenze degne di nota erano considerate quelle dei ‘lumi’ della ragione, che si contrapponeva al mito ed alla religione e rifiutava fortemente l’oscurità di un passato ritenuto buio e tormentato. Già Aristotele, in realtà, aveva affermato che: «Gli uomini di esperienza sanno bene che una cosa è, ma non sanno il perché; gli uomini d’arte conoscono anche il perché». La malattia, allora, non rappresenta una successione di manifestazioni che compaiono in modo disordinato, ma una successione ordinata di eventi, in cui ognuno di essi trova la sua origine in quello che l’ha preceduto. Anche Galeno di Pergamo (130-200 d.C.) ritenne che la ragione e l’esperienza sono fondamentali per un buon esercizio della professione medica. Eppure non mi pare possibile affermare che questo concetto si discosti molto dalla conoscenza certa dell’episteme. In tutto questo va ricordata l’importanza della relazione medico-paziente, presente solo in nuce allora, in ogni ambito della medicina ed in particolare nella Psichiatria, la disciplina di cui mi occupo. La Psichiatria è, infatti, soprattutto, relazione. Se nella letteratura specialistica odierna il rapporto medico-paziente è considerato uno strumento tecnico di grande rilievo in ogni genere di attività clinica, e dunque valido in ogni campo della medicina, a maggior ragione questo è valido in psichiatria, laddove lo strumento terapeutico è rappresentato dalla nostra mente che lavora per la mente di un altro. Una buona relazione agisce, di per sé, come fattore diagnostico ma anche terapeutico, poiché influenza direttamente o indirettamente, ogni altro processo coinvolto nell’agire clinico.Anche la semplice prescrizione di un farmaco (e dunque una psichiatria in… ‘pillole’), non può prescindere dalla relazione. Non dimentichiamo che Balint sosteneva che il primo farmaco che il medico prescrive è se stesso.

Se a sostenere una prescrizione farmacologica non c’è una buona relazione, già instaurata o comunque in fieri, è difficile che quel paziente assuma quel farmaco e, se lo farà, sarà con poca convinzione, e l’efficacia di quel farmaco sarà inferiore a quella che si otterrebbe se il farmaco venisse assunto con maggiore fiducia nel prescrittore. Potremmo dire che il medico è l’agente intermedio tra il paziente ed il farmaco e, non da ultimo, colui che tramite la relazione fa da cuscinetto tra il paziente e la sua malattia. In realtà, le cose non sono, però, sempre state in questi termini. Nelle epoche primitive il concetto dell’alternanza tra salute e malattia faceva parte dell’ordine soprannaturale delle cose; la salute era un dono, la malattia un castigo e la relazione tra il paziente e la cura era basata su idee di tipo magico. Negli scritti Ippocratici, nella Grecia classica, appaiono i primi scritti sulla necessità che il medico attribuisca una certa attenzione alla vita interiore del paziente: l’organismo era considerato un tutto complesso ed unitario. Nel VI e V secolo a.C. cominciarono ad emergere concezioni tecniche della medicina e la relazione medico-paziente era considerata una ‘relazione amichevole’, basata sulla fiducia del paziente nel medico e nella medicina (Lain 1978). In Era cristiana l’aiuto al malato veniva considerato un dovere etico e religioso. Solo nel XV e XVI secolo ci si pose con un atteggiamento di ricerca clinica basato su un concetto scientifico naturalistico della medicina. Nel corso del XVIII secolo, un decisivo mutamento della mentalità medica chiarì che è il paziente a dover essere trattato e non la malattia. Medico che cessò di essere semplicemente un uomo di scienza. Ma i più rilevanti progressi nella considerazione del rapporto medico paziente si ebbero nel XIX e XX secolo e rappresentano ancora la base della medicina contemporanea. La medicina, infatti, cominciò ad essere applicata ad altre scienze come l’antropologia e la psicologia. D’altronde Balint, in ‘Medico, paziente e malattia’, sostenne l’importanza non solo degli aspetti psicologici del paziente, ma anche la necessità di considerare gli aspetti psicologici e controtransferali del medico nel suo rapporto con il paziente. Dunque, non solo il rapporto interpersonale ma anche quello intrapersonale. In tutto questo un peso determinante è rappresentato dalla influenza del punto di vista interpersonale ed intersoggettivo nell’ambito della teoria psicoanalitica: il soggetto può essere compreso solo in un contesto interpersonale ed una buona comunicazione dovrebbe essere basata non solo sugli aspetti informativi ma anche su quelli emozionali. Negli anni si è così passati da un modello di rapporto Medico-Paziente inteso come relazione paternalistica da parte del medico, ad un modello di rapporto che rafforza l’autonomia del paziente. In realtà, forse, quella che ancora oggi non si è ancora pienamente raggiunta è l’educazione sia del medico che del paziente ed una mutua alleanza tra loro al fine di trattare la malattia e l’asimmetria tra i due ruoli che, spesso, purtroppo, i pazienti cercano di colmare attingendo notizie specialistiche qui e là. E’ invece auspicabile una complementarietà, in cui entrambi i membri della relazione abbiano come obiettivo comune il trattamento terapeutico del paziente ed il suo sollievo emotivo.

Riferimenti bibliografici

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