STORIA

RENZO DE FELICE

Pier Franco Quaglieni

“tutti i liberali sono antifascisti, peccato che parecchi antifascisti siano illiberali e anche antidemocratici“

Se pensiamo al nome di alcuni storici che oggi vanno per la maggiore e alle loro estemporanee scorribande pseudo-storiche sul Fascismo che sono semplici esternazioni propagandistiche, abbiamo il senso del vuoto incolmabile lasciato da Renzo De Felice. Il Fascismo venne fondato nel 1919, nel 1922 Mussolini fece la Marcia su Roma. Da alcuni anni siamo ossessionati da meri propagandisti ideologici come Scurati che denunciano in Italia il pericolo che la storia, dopo cento anni, si possa ripetere, dimenticando che le condizioni attuali del Paese e le vicende anche molto tragiche vissute dall’Italia in questi quasi cento anni, impediscono il ripetersi di quell’avventura. L’opera di De Felice e la sua lettura (cosa del tutto estranea agli ideologi e ai fanatici odierni) smentisce le Cassandre tristi che evocano il ritorno ad un regime non ripetibile, che nacque dopo la Prima Guerra Mondiale da una vera e propria guerra civile, ispirata dalla Rivoluzione bolscevica del 1917. A venticinque anni dalla morte di uno dei maggiori storici del secolo scorso, De Felice, autore di una monumentale e ineguagliata opera su Mussolini e sul Fascismo, ci deve indurre ad alcune riflessioni sul significato di una presenza fondamentale ed unica come la sua, osteggiata da quei fanatismi ideologici (tornati di moda oggi) che arrivarono allo scontro fisico e alla violenza non solo verbale. A De Felice fu impedito di far lezione e si chiese persino di cacciarlo dalla cattedra di ruolo all’Università “La Sapienza“ di Roma, ottenuta per pubblico concorso. A livello mediatico alcuni professori e giornalisti come Rochat, Tranfaglia, Del Boca e altri si sbizzarrirono nelle accuse e negli attacchi più violenti. Degli estremisti cercarono anche di ordirgli un attentato, ma il professore era fuori casa a curarsi della malattia che lo porterà troppo presto alla tomba. Fu accusato di volgare revisionismo, mentre il suo intento era quello di individuare una terza via storiografica tra marxismo demonizzante e tentativi volti a riabilitare il Fascismo e Mussolini.  Una revisione che è sempre implicita nel lavoro storico, non il revisionismo interessato da motivazioni politiche. De Felice proponeva una storia di Mussolini e del regime senza partire dall’a priori dell’antifascismo e della retorica della vulgata, secondo la celebre formula da lui coniata. Una scelta ampiamente condivisibile che partiva da lontano: Chabod, Romeo, Cantimori.
Non va dimenticato che lo storico fu marxista militante e iscritto al Pci, dal quale uscì nel 1956 insieme a Cantimori dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria. Il magistero liberale di Chabod e la lunga amicizia con Romeo che lo difese a viso aperto con vero coraggio liberale, fanno pensare ad un De Felice non sdoganatore del Fascismo, ma ad un uomo vicino al liberale “Mondo“ di Pannunzio che nessuna destra può rivendicare, a nessun titolo. Egli stesso fu un “uomo liberale“ per eccellenza. Me lo fece conoscere il comune amico Rosario Romeo e una volta De Felice mi disse una grande verità che trascrivo per la prima volta: “tutti i liberali sono antifascisti, peccato che parecchi antifascisti siano illiberali e anche antidemocratici“. Una frase che merita di essere meditata e che rivela il suo anticonformismo. Purtroppo un’analisi che vale anche oggi. Un concetto che fu anche di Craxi quando denunciò che non tutti gli antifascisti erano democratici, riferendosi agli atteggiamenti intolleranti di alcuni dirigenti e militanti del PCI di quei tempi. Rileggere la sua immensa opera consente di capire chi siano stati Mussolini e il Fascismo. Peccato che la morte a 67 anni gli abbia impedito di completare e magari di rivedere il suo lavoro ciclopico (oltre 6.000 pagine solo nell’opera dedicata a Mussolini) che non poteva umanamente essere esente di qualche piccolo errore materiale. Su queste piccole cose hanno infierito i suoi critici, incapaci di comprendere l’opera defeliciana, ma attenti critici di particolari insignificanti che dimostravano la inadeguatezza dei suoi nemici. De Felice ebbe dei nemici, non degli avversari. Potrei essere testimone di questo odio contro il Maestro che era per altro, di per sé, un uomo spigoloso e introverso, segnato nella sua vita   da grandi dolori e da una lunga malattia.

Gianni Oliva è invece convinto che gli avversari di De Felice avessero capito perfettamente il valore dirompente della sua opera ed avessero tentato di fermarlo con l’intimidazione. Credo che abbiamo ragione sia Gianni sia chi scrive perché certi piccoli studiosi, come hanno dimostrato anche dopo, accanendosi contro Giampaolo Pansa (bersaglio oggettivamente neppure confrontabile) hanno rivelato la loro inadeguatezza ad approcciarsi ad un serio lavoro storico, a prescindere dal loro furore ideologico rimasto la loro costante. Riandare a De Felice ci permette di vedere i limiti degli storici o pseudo -storici che ci hanno invaso con una saggistica spesso inutile perché volta solo alla propaganda politica. Molti critici di De Felice sono nomi già dimenticati, perché il loro fine è stato solo quello di fare del fascismo un mostro da esorcizzare in modo sommario -da utilizzare politicamente a favore del Pci- e non un regime autoritario da studiare con il distacco critico che la ricerca storica impone ad uno studioso. Si potrebbe dire sintetizzando che De Felice applicò al Fascismo il rigore del metodo storico che gli aveva insegnato Chabod. Egli non frequentò le cellule politiche universitarie neppure quando era comunista ma si immerse negli archivi polverosi in tempi in cui l’accesso ad essi non era affatto agevole. Ha lasciato alcuni allievi che si ritengono suoi continuatori e hanno avvalorato la tesi del revisionismo defeliciano come rivalutazione del fascismo e persino del neofascismo. Oggi che sembra che stia rimontando la vulgata contro cui De Felice ha condotto la sua ricerca storica, bisogna, a mio modo di vedere, se siamo davvero liberali, schierarci nella difesa strenua della sua opera, opponendola ai libretti degli improvvisatori che ci ripropongono la minestra riscaldata di una storiografia obsoleta che risale al dopoguerra. Alcuni presunti eredi del maestro hanno fallito perché sta riprendendo quota la vulgata che De Felice e persino l’ultimo Giorgio Amendola avevano messo in crisi. Alcuni hanno contribuito a confondere il maestro con un revisionismo che non fu mai suo ma di alcuni   dei suoi seguaci meno significativi.
Si impone una considerazione molto amara ma doverosa. Forse pochi hanno impegnato alacremente il loro tempo nella ricerca come lui, forse nessuno ha avuto la sua intelligenza critica nel perseguire la terza via da lui indicata. Oggi certi giovani un po’ ribaldi che si definiscono militanti antifascisti alzano la voce perché nessuno ha saputo portare a maturazione magistero defeliciano, sviluppando la sua opera senza ridurla ad un’altra litania di stampo opposto a quello delle vulgate. De Felice va distinto da molti defeliciani, come Bobbio va tenuto lontano da quasi tutti i bobbiani. Una osservazione del grande liberale Girolamo Cotroneo. Insieme ad uno storico di razza come Gian Enrico Rusconi ricordai 25 anni fa De Felice al Centro Pannunzio di Torino in una sala pienissima di ex partigiani e reazionari di destra, pronti a scattare nell’invettiva o nell’applauso acritico. Furono delusi perché noi parlammo di un De Felice fuori dagli schemi, dalle polemiche e dalle letture strumentali. Spero – ma non sono sicuro – che dopo un quarto di secolo si possa fare la stessa scelta di allora anche oggi, liberandolo dall’etichetta di un falso revisionismo filofascista inesistente e dalle interpretazioni rozze e manichee dei vecchi e nuovi maestrini che continuano a circolare indisturbati ed a volte sono perfino osannati in televisione.  Ho dedicato la mia estate 2021 ad una rilettura approfondita di parti dell’opera defeliciana e la mia impressione, a tanti anni di distanza, è che De Felice fosse rimasto un uomo di sinistra, al di là delle persecuzioni subite. Sarebbe interessante un confronto sereno su questo tema non certo secondario per capirne la figura, andando oltre certe interviste che lo hanno reso famoso al pubblico, ma non sono confrontabili con la sua opera storiografica.