LIBRI NEL CUORE
QUEL MIO PRIMO PAVESE
Paolo Verri
Erano anni di lotte cruente e assurde intorno a noi, ragazzini della Torino di fine anni Settanta
Sono qui con a fianco uno dei miei libri totem, ‘La casa in collina’. E’ la decima edizione in ristampa di una collana Einaudi, ‘Letture per la scuola media’, di cui continuo a comprare sulle bancarelle tutto quello che trovo. Questo però è il MIO primo libro di Cesare Pavese. L’ho comprato nel 1978, all’età di undici anni e mezzo, ed è ricchissimo di appunti. In maniera imbarazzante, rivedendolo ora, rileggo perfino il mio nome scritto in pennarello rosso attraversando tutte le pagine del libro. In copertina, un disegno al tratto di Vincent Van Gogh che ritrae una campagna brulla e una casa colonica in evidente attività, ma senza che appaiano in questo paesaggio né uomini né animali. Un filare di alberi in primo piano ci ricorda la cura dell’uomo per la terra, la sua dedizione. Come scrive Gina Lagorio nell’introduzione al volume (preziosa!), “nella vita di ciascuno, c’è stato, durante l’adolescenza, l’incontro con un autore che è rimasto nella coscienza e nella memoria come una svolta del proprio cammino”. Pavese per me ha avuto quel ruolo: è stato mito, fin da subito. Erano anni di lotte cruente e assurde intorno a noi, ragazzini della Torino di fine anni Settanta. Andavo a piedi da casa mia, in Borgo San Donato, fino in centro, via della Cittadella, a fianco della Biblioteca Civica, dove resisteva la scuola media ginnasiale Cesare Balbo, di cui frequentavo la sezione E, essendo il negozio di abbigliamento per donna dove lavorava la mia mamma a due isolati da lì, in via Garibaldi angolo via dei Quartieri. Mentre camminavo ripensavo alla guerra di liberazione, allo sguardo dall’alto che Pavese poneva a tutta la città – qualche anno dopo l’avrei ritrovato nel meraviglioso capitolo di apertura de ‘Le mosche del capitale’ di Paolo Volponi, capolavoro che troppo pochi anni letto. Per chi arrivava dalla Langa o dal Monferrato, entrare in città dalla collina voleva dire riprodurre l’esperienza di arrivare in Alba da Treiso o a Nizza dalla Calamandrana. Nel silenzio, poter capire se fosse un giorno di guerriglia, o di pace apparente. Per me, in quegli ultimi, durissimi scorci di violenza urbana tra Brigate Rosse e stato, era entrare in piazza Statuto; lì avrei capito se sarebbe stata una giornata difficile, in cui assistere a un attentato o quanto meno al duro manganellare della polizia addosso a manifestanti di diversa natura, oppure il brulicare della vita si dispiegava senza preoccupazioni. Camminavo ogni giorno percorsi diversi, il più tetro dei quali mi faceva risalire da Corso Regina Margherita per via Industria, dove poco tempo dopo furono scoperti due covi di terroristi rossi; ma nella mia testa mi sembrava di essere ora nella campagna dei miei nonni, che di Pavese erano più o meno coetanei, o nella Grecia mitologica che cominciavo ad amare leggendo l’Odissea in versione Disney.
Purtroppo non avevo con me Belbo, il cane di Corrado, il protagonista de ‘La casa in collina’; né avevo amori tanto forti come quelli per Elvira, anche se nel mio piccolo cuore ancora infantile vagheggiavo di incontrare una Cate per cui spendermi, mettendomi a disposizione con tutto quello che sapevo fare – ovvero, nulla! Di Pavese mi incuriosiva la lingua, che davvero mimava perfettamente parte del dialetto dei miei nonni, che invece ero negato a replicare, sia a voce che tanto più per iscritto. Quando scoprii che aveva tradotto il libro mio preferito dell’infanzia, quel David Copperfield che leggevamo in una versione tristemente ridotta, cercai di procurarmi tutti i suoi libri, e li chiesi come regalo di Natale. ‘Dialoghi con Leucò’, ‘La bella estate’, ‘La luna è i falò’ e ‘Il mestiere di vivere’ arrivarono in un unico pacco blu notte, appoggiato alla luce fanè della sala dei miei genitori. In lui cercavo anche la luce che traspariva da alcune sue frasi ricorrenti, poesie dalla lassa lunga che si facevano prosa, un po’ il contrario di quanto era accaduto al poeta americano su cui aveva dato la tesi di laurea, Walt Whitman. Fu un acquisto speciale, quello di ‘Foglie d’erba’ da remainder di corso Siccardi, con i soldi risparmiati di un gelato di Copa Rica, all’epoca il top dell’offerta di settore. Scoprire che anche New York aveva un passato fatto di alberi, di radure, di fiumi, mi fece riflettere non poco. Intanto la lettura scolastica del ‘La casa in collina’ procedeva con aspre discussioni tra scuola e casa. Fu il momento di scoprire che il mio nonno Paolo, da me amato quanto mai avrai più amato nessuno, era stato convintamente fascista, e che guardava con sospetto le mie amicizie con i ‘napuli’, i ragazzini terroni che frequentavano la mia stessa scuola. Come Corrado sentiva Radio Monaco per scoprire i prossimi passi dei badogliani e dei tedeschi, mentre su Torino fiammeggiavano le bombe, io ascoltavo Radio Popolare e mi formavo una coscienza del tutto autonoma dalla mia famiglia. Non avevo casa in collina dove rifugiarmi, ma andavo in corso Principe Eugenio dalla famiglia Testa. Nanni, il figlio più piccolo, era il mio migliore amico; con lui parlavo di ragazzine, di musica, di basket; suo fratello Paolo era veramente di sinistra, con l’eskimo e la sciarpa rossa, di Pavese poteva essere il nipote che mai avrebbe avuto.