STORIA
QUEI COMUNISTI MANGIAVANO GLI AGNOLOTTI
Guido Barosio
Il PCI era la Torino operaia, e anche quella intellettuale, che però volava alto e quasi non la vedevi.
Torino Anni Settanta, o giù di lì. Se avevi un’opinione vagamente dissenziente, se qualcosa nel comportamento degli insegnanti non ti andava, oppure ti opponevi a qualsiasi forma di autorità, anche solo ai vigili urbani, il ritornello non cambiava: “Ma sei Comu?”. Una categoria non ben precisata di rivoluzionario facinoroso che alle madamine proprio non andava già. Per la verità di generi ben presenti nell’immaginario popolare ce n’erano altri due. Chi andava in chiesa, persino saltuariamente, si meritava un bel “Ma t’piasu i preivi” (letteralmente ‘ti piacciono i preti’), mentre coloro che rimpiangevano l’Italia in camicia nera si guadagnavano un sospettoso “T’ses propre dal Mis”, inteso come fan di Almirante, altrimenti detto ‘fascistone’, dove quell’one non aveva una spiegazione precisa. Insomma era una Torino dai gusti semplici, fatta di contrapposizioni nette, che d’altra parte definiva ‘Napuli’ tutti coloro nati a sud di Alessandria. Ed era la mia città, quelle delle prime passioni vissute a scuola, per la strada, allo stadio, nelle feste tra coetanei dove si cercava un semibuio complice (persiane ben serrate anche alle quattro del pomeriggio) e dove se ‘tagliavi’ si andava all’Impera, anche se non sapevi giocare a bigliardo. Ed era la Torino del PCI, semplicemente un totem, ben rappresentato da un sindaco, Diego Novelli, che avrà sorriso due o tre volte in vita sua, una per lo scudetto del Toro. Il PCI era la Torino operaia, e anche quella intellettuale, che però volava alto e quasi non la vedevi. La celebrazione più colorata dell’anno era la Festa dell’Unità, salsicce arrosto, ballo al palchetto e libri Einaudi in stretto vicinato. Quel PCI non era per nulla rivoluzionario, ma orgogliosamente sindacalista, composto da amministratori austeri e concreti, ai miei occhi onesto anche se non condivisibile. E qui entra in gioco l’etica familiare di una famiglia come la mia. Mio papà Carlo ha sempre votato comunista anche se non me l’ha mai confermato – “perché il voto è segreto e non si dice” – non ha mai fatto propaganda tra le mura domestiche, anzi, quando alle medie avrei voluto comprare, incuriosito, l’Unità, si oppose perché ero troppo giovane. Ma, si sa, il destino è baro quanto beffardo, così le mie propensioni politiche andarono nella direzione opposta e, allora si, cominciarono le discussioni. Però io ho sempre identificato il PCI con l’etica ortodossa del lavoro di casa mia, con quella capacità di fare le cose per bene senza trascendere mai. Mio papà da operaio divenne impiegato, comprò due piccoli alloggi coi suoi risparmi, non fece mai un debito in vita sua e neanche un acquisto a rate, che non era proprio contemplato nei codici comportamentali del torinese DOC. La sua analisi politica era nitida: “Vorrei il PCI al governo con una forte DC all’opposizione”, per bilanciare, per lasciare il sistema com’era, garante di tutti. Pochi anni più tardi il terrorismo avrebbe incendiato l’Italia, e la mia città in particolare, con utopie di rivoluzione che la Torino operaia e comunista considerava semplicemente come le forze del male. Gli occhi di mio papà, che aveva visto la guerra, erano gli occhi solidi e sereni di un uomo per il quale il lavoro era una sintesi di tre parole: dovere, diritto, riconoscimento. Col passare degli anni quella Torino comunista nata nel dopoguerra ha perso smalto e vigore, il passare delle generazioni è stato fatale, il nome è cambiato e le persone pure. Facile dire in peggio. Quello era un PCI metropolitano ed operaista che si specchiava nella grande fabbrica fordista, l’uno era necessario all’altra, l’uno sarebbe tramontato come l’altra.
Noi eravamo i figli di un mondo solido dalle radici profonde e ce ne siamo allontanati. Ma siamo stati anche l’ultima generazione che tante cose ha visto e da qualcuna ha imparato. Nella seconda metà degli Anni Settanta, e anche dopo, ci siamo azzuffati per la politica ma condividevamo un mondo comune: ascoltavamo la medesima musica, leggevamo gli stessi libri, guardavamo le stesse trasmissioni in TV. A volte penso che siamo stati gli ‘ultimi italiani’, figli di genitori che questa Italia l’hanno messa in piedi e hanno provato a raccontarcela e a farcela amare. In quei tinelli marron si parlava poco di politica, ma si mangiava insieme tutti allo stesso tavolo, la mamma cucinava cose magnifiche e il mondo, fuori, era ragionevolmente spiegabile. Per mio papà politicamente ero un alieno, ma non c’è mai stato un rimprovero, un anatema, una lite da ricomporre faticosamente. Io quel suo PCI non l’ho mai votato però per quella sigla ho rispetto ed affezione, non sono mai stato operaista ma quelle schiere di ‘soldatini blu’ (come li ha cantati Gipo Farassino) erano la forza che teneva in piedi il mio paese, lavoravano duro e facevano ogni giorno quello che si doveva fare. Si difendevano? E ci sarebbe mancato ancora. Il già citato Farassino e il ‘nostro’ Toro – il 16 maggio del 76, in centro, mi disse: “sembra la festa della Liberazione” – erano il collante di una bella amicizia tra padre e figlio che solo avrei voluto un po’ più lunga. Qualcuno dei miei coetanei di quel PCI aveva paura, lo detestava, io mai. Come spiegarvelo? Ci provo attraverso concetti semplici: stavano dalla parte di chi andava in fabbrica al mattino alle sei, facevano funzionare la mia città (dal traffico all’anagrafe, per dire), non mi hanno mai obbligato a fare nulla che non volessi. Il PCI è un pezzo della storia d’Italia, ma è soprattutto un pezzo dei posti di quell’Italia: Torino, la Toscana, l’Emilia… Penso che non sia mai diventato partito di governo proprio per quello, efficace ad amministrare, forse, costituzionalmente, incapace a governare. A quel PCI l’Italia deve molto e glielo riconosce un ex ragazzo di destra, oggi irritato (e anche molto di più) da una politica dove non si riconosce, perché priva di etica e di dignità, dove nani ed acrobati chiedono consenso ignorando persino la grammatica. Quei cari, vecchi, comunisti torinesi certo non mangiavano i bambini ma gli agnolotti si. A casa la mamma e il papà ci mettevano un giorno a farli, passaggio dopo passaggio, sfoglia tirata a mano e ripieno d’alchimista (che non si rivelava mai, come il voto nell’urna), e poi in tavola, gustati col Barbera (quello dei nonni in campagna, solo quello), a discutere di Berlinguer, Moro, Almirante e Pannella. E c’era sempre spazio per il buon senso, l’ironia (quando il segretario del PCI barrava una gigante simbolo del partito durante l’appello agli elettori, “Fa bene, così nessuno si sbaglia”, commentava mio padre) e non si temeva il confronto. Come in quella ineguagliabile trasmissione che fu ‘Tribuna politica’, con politici veri l’uno di fronte all’altro e di fronte a milioni di telespettatori, dove altri giornalisti veri facevano domande credibili, sovente con una sigaretta tra le dita. Un’Italia tabagista nella quale nessuno interrompeva l’altro, dove chi parlava dopo ascoltava. E vinceva sempre il faccia a faccia che escludeva l’arido spot elettorale. Dopo si pensava e poi si votava, senza dire a nessuno per che cosa. Ci penso e li ringrazio. Quella era la politica degli anni belli.