EDITORIALE

QUANDO FINIRA’?

Guido Barosio

L’epidemia è mutata, l’epidemia è assai meno letale.

La pandemia di Covid compie due anni, anche se la data precisa di inizio resta incerta, mentre invece sappiamo che la zona rossa venne istituita a Codogno il 20 febbraio 2020. Due anni, quindi. Quelli necessari ad un bambino per diventare più sicuro e agile nella camminata, per esprimersi meglio con le parole e diventare sempre più autonomo. Il nostro piccolo nato a febbraio 2020 oggi è questo. Nel frattempo abbiamo cambiato il governo, è ‘scaduto’ il presidente della Repubblica e la Juve ha smesso di vincere scudetti. Tante cose piccole e grandi, ma noi siamo rimasti mascherati e il Covid è ancora ben presente nei nostri notiziari. D’abitudine al primo posto, col suo quotidiano bollettino di contagiati, ricoverati e deceduti. L’ossessione resiste, ma nel muro compaiono anche le prime, vistose, crepe. In una nazione divisa tra vaccinati e non, sono i secondi ad aver assunto il ruolo di colpevoli. Certamente meritato dalla galassia no vax, arroccata su posizioni irragionevoli, dove il vaccino è un “siero genico sperimentale” ed il green pass viene equiparato alle leggi razziali. Un rigore bislacco che ha reso impossibile ogni forma di critica e di dialogo, perché, e questo va detto, non tutto è andato proprio per il verso giusto, anzi. Il vaccino ha risolto molti problemi ma non tutti, e le varianti ne hanno depotenziato l’efficacia. La seconda, la terza, la prossima quarta dose non erano nelle previsioni iniziali. Ma oggi chi ha completato il ciclo, booster compreso, se si contagia non si ammala o si ammala lievemente. E questo va visto come una grande vittoria. Certo, nel febbraio del 2020, nessuno avrebbe pensato che la battaglia sarebbe stata così lunga. Il governo si è adattato, con fatica, alle vicende: prima chiudendo tutto (forse persin troppo), poi ignorando l’arrivo delle ondate successive (invernali, com’era prevedibile), dopo ancora stringendo la libertà dei no vax con divieti e green pass, ora col vaccino obbligatorio over 50. Provvedimenti inevitabili, ma spiegati male o confusi, come la DAD imposta alle scuole e l’eccessiva promiscuità concessa sui mezzi pubblici. La novità di questo inizio 2022 è una scelta che appare sempre più evidente: non si devono più bloccare le attività produttive e i movimenti dei cittadini, i luoghi di intrattenimento e di ristoro non possono più essere chiusi, l’economia deve fare il suo corso mentre la sanità deve tenere le posizioni. Finalmente. Ma purtroppo non si è ancora messo un freno allo spaventismo, particolarmente vigoroso nel periodo delle festività natalizie, con la caccia alle streghe nei confronti di eventi e potenziali assembramenti, con una mannaia nei confronti degli spostamenti internazionali (anche europei) che ha decapitato il turismo. La cultura dello spaventismo, l’informazione esondante (sovente univoca) dei media, tengono ancora lontana la fine dell’incubo. Perché? Perché si uscirà veramente dalla pandemia quando – vaccinato tutto il vaccinabile – saremo in grado di accettare la realtà che ci circonda, anche se sarà una realtà nuova, differente, non necessariamente più rassicurante ma controllabile. Quando non prenderemo in considerazione numeri e bollettini come ci vengono proposti oggi, ma quando li interpreteremo da un punto di vista diverso. L’infettivologo Matteo Bassetti – particolarmente apprezzato da molti medici ospedalieri – ha recentemente sostenuto che i numeri dei contagiati non dovrebbero essere divulgati, perché privi di significato scientifico, così come i dati riferiti ai decessi, dove concorrono spesso cause estranee al covid.

Cambiando strategia di comunicazione, andrebbe valorizzato quel dato che segnala come oggi al numero dei contagiati, intorno ai 200mila (il triplo di un anno fa), corrisponda il medesimo numero di vittime del gennaio scorso, dove peraltro l’Italia era in lockdown. L’epidemia è mutata, l’epidemia è assai meno letale. L’età media dei deceduti è di 80 anni, quindi concorre anche un dato generazionale. Quindi sappiamo chi dobbiamo tutelare e proteggere con maggiore attenzione. Forse siamo prossimi ad una fase di endemia, uniformemente diffusa, maggiormente prevedibile ed affrontabile. In questa situazione sarebbe preferibile un atteggiamento più misurato e meno allarmante da parte della stampa mainstream, ancora drogata dai bollettini, dai numeri e, pervicacemente, dai numeri peggiori. Non credo ad un disegno che colleghi i mezzi di comunicazioni alle strategie governative, ma piuttosto ad una forma di realismo “più reale del re”, dove viene scelta la cultura spaventista per ammonire i cittadini, tenerli a freno, obbligando al vaccino la retroguardia dei riottosi. Un errore strategico, perché quel 10% che rifiuta il vaccino non è in nessun modo avvicinabile, resiste duro e puro sulle proprie bizzarre convinzioni, è convinto di partecipare ad una crociata e cerca nella campagna vaccinale persino un riscatto dei propri fallimenti personali. Va isolato e lasciato perdere, se vorrà cambiare cambierà, inutile prestargli attenzioni offrendo tribune dalle quali esprimersi. La restante parte, enormemente maggioritaria, della cittadinanza non ha bisogno di toni millenaristi, spauracchi privi di giudizio, divieti inutili, provvedimenti complessi da decifrare a fatica. Il risultato sarà solo la corsa ai tamponi, con risultati non sempre resi noti per paura di restare segregati. Per non parlare dei “contatti coi contagiati”, misteriosi, sovente ignorati, forieri di quarantene a catena. La paura generata dalla malattia è però superiore ad ogni altra, perché è la paura dell’invisibile, del vicino di casa, del collega o della moglie, del letale che ci piomba addosso quasi per maledizione divina. Anni fa chiesi a Marco Durante, presidente di LaPresse, agenzia che ho diretto per due anni, se i suoi fotografi temessero di più una trasferta in Iraq, dove la guerra civile mieteva migliaia di vittime, o in Canada, dove si cercava di circoscrivere l’epidemia di Sars. Mi rispose: “hanno senz’altro più paura della malattia”. Ecco, il mondo va così. Dall’11 settembre in avanti il terrorismo ha colpito, dopo gli USA, la Francia (più volte), la Germania, la Spagna e molti paesi extraeuropei. Non è mai stato chiuso un ristorante, un teatro, un centro commerciale, la vita, pur nel dolore, è andata avanti senza cambiare le proprie consuetudini sociali. Perciò uscire dall’emergenza Covid sarà più difficile, anche mentalmente, non mancheranno i colpi di coda, e il dopo non sarà più esattamente come il prima. Però l’orizzonte cambierà colore quando l’accettazione si allineerà con gli strumenti della scienza, quando la cultura dello spaventismo verrà riposta in soffitta, quando non subiremo più ammonimenti superflui e bollettini di guerra. E allora finirà, e sarà per certo nel 2022.