SOCIETA’
PER RAGIONI DI ANAGRAFE
Gianni Oliva
“Tremate, tremate, le streghe son tornate”
Per ragioni di anagrafe (classe 1952) e di ambienti frequentati (la cosiddetta “sinistra extraparlamentare”) ho vissuto alcuni degli aspetti più arrabbiati del femminismo anni Settanta: la polemica contro “il maschio in quanto maschio”, la destrutturazione della coppia, la critica feroce di tutto ciò che rinviava a ruoli di genere. Sul piano personale, sono stati anni difficili per chi era femmina e per chi era maschio: c’era assoluta chiarezza su ciò che non si voleva essere, e altrettanta confusione su ciò che si voleva diventare. La demolizione delle certezze provocava ansia individuale e collettiva e, per reazione, esasperava gli atteggiamenti “contro”, alimentando un’aggressività verbale e comportamentale che surrogava l’incapacità di progettare un cambiamento credibile. Ricordo un’assemblea paradossale a Palazzo Nuovo la sera del 16 marzo 1978, giorno dell’agguato delle Brigate Rosse in Via Fani: in un’atmosfera greve e disorientata, una militante prese il megafono e con accenti esasperati denunciò che “il rapimento Moro è l’ennesima scadenza che passa sopra la testa delle donne”. Nessuna spiegazione sul nesso tra rapimento e questione di genere, perché le assemblee non erano fatte per spiegare ma per asserire, e nessuna reazione contraria, solo qualche faccia più serrata e scura: l’oppressione di genere era diventata una categoria spendibile in ogni contesto, anche in una vicenda tragica di tutt’altra natura come l’assassinio della scorta dello statista e il suo rapimento. Sarebbe tuttavia ingeneroso (e troppo facile) fare la caricatura del “femminismo arrabbiato”. “Tremate, tremate, le streghe son tornate” si inserisce nelle rivendicazioni di una stagione di cambiamenti tumultuosi, troppo radicali per essere metabolizzati senza contraddizioni. Proviamo a guardare le fotografie di palazzo Campana sgomberato dalla Polizia nell’inverno 1967: le studentesse hanno la gonna alle ginocchia, la camicetta bianca, le scarpe con i tacchi bassi, i capelli raccolti in un chignon o in una treccia; i ragazzi hanno giacca e cravatta, scarpe basse di lucido nero, capelli tagliati corti con sfumatura. Quella stessa generazioni fotografata nei cortei del maggio 1968, meno di un anno dopo, è irriconoscibile: le ragazze indossano i pantaloni oppure le minigonne, calzano gli stivali, portano i capelli sciolti sulle spalle, oppure corti a caschetto; i ragazzi hanno i capelli lunghi, i basettoni, le barbe incolte, vestono jeans e maglioni al posto del completo, hanno sostituito le cravatte annodate con qualche sciarpa svolazzante.
Dietro la rivoluzione del “look”, c’è la rivoluzione dei comportamenti: la liberazione sessuale, la contestazione della famiglia e della scuola, il rifiuto della gerarchia, la denuncia dell’autoritarismo. Un anno prima si studiavano “I promessi sposi” e la “Divina Commedia”: un anno dopo si leggono Marcuse e don Milani. Io capisco adesso lo sconcerto di mio padre, classe 1910 abituato alla “brillantina” nei capelli, di fronte ad un figlio adolescente che in pochi mesi passa dai calzoni corti all’eschimo verde: troppa radicalità, troppa novità tutta insieme, come sempre accade nei momenti storici di rottura. Se riferiamo il tutto al punto di vista di una ragazza cresciuta nell’atmosfera perbenista e bacchettona dell’Italia degli Anni Sessanta (quella che nel 1966 processava per offesa al pudore gli studenti del liceo “Parini” di Milano per avere pubblicato un’inchiesta su ciò che le studentesse dell’istituto pensavano dei rapporti prematrimoniali), è facile capire le derive e le ragioni che hanno portato alcuni settori del femminismo italiano ad assumere tratti di esasperazione meno evidenti in altri Paesi occidentali. La strada da percorrere nel 1968 era enorme, quando la legislazione ancora contemplava il “delitto d’onore”, considerava la violenza sessuale “reato contro la morale”, riteneva non perseguibile lo stupratore in presenza di “matrimonio riparatore”, non prevedeva né il divorzio né il diritto di aborto; per non parlare delle discriminazioni sul posto di lavoro, dell’esclusione dalle carriere di prestigio, della marginalità nella vita politica, etc, etc, etc…… Di fronte alla questione femminile (e non solo) era facile capire che andavano demoliti comportamenti e attitudini fuori dalla storia, ma non era altrettanto facile trovare equilibri nuovi, soprattutto perché si trattava di trovarli nella dimensione privata, sempre più sensibile di quella pubblica. In questo senso, sarebbe ingiusto considerare le “streghe arrabbiate” l’aspetto folkloristico di una stagione velleitaria: semmai, sono il prezzo che una parte di quella generazione ha pagato al cambiamento. Vivere all’interno di schemi predefiniti è sempre rassicurante, anche se non offre stimoli e spesso annoia; i problemi nascono quando l’esistente diventa una gabbia da cui evadere per non soffocare. Allora finiscono le certezze e iniziano le sfide: che, come sempre, lasciano sul terreno morti e feriti, anche quando sono vincenti.