EDITORIALE

PALESTINA E SPRINGBOKS, L’ORRORE E LA SPERANZA

Guido Barosio

Un confronto per comprendere le radici del conflitto.

Quarti di finale della Coppa del Mondo di Rugby, in campo il Sudafrica, i leggendari Springbok, detentori del titolo; di fronte la favoritissima Francia, che gioca in casa e perde, di fronte a motivazioni granitiche, che vanno ben oltre il dato sportivo. La mia riflessione parte dagli inni nazionali: i sudafricani, stretti tra di loro, sembrano un solo uomo, l’estensione di una medesima creatura, bianchi e neri, boeri e provenienti da ogni altra etnia. L’inno è una composizione che mette in sequenza le lingue: zulu, xhosa, sesotho, afrikaans e inglese. La sintesi di una storia tormentata, la canzone di tutti, unificante e benedetta. Una canzone che ogni atleta fa sua, cantando, con evidente partecipazione, le strofe dei suoi ex nemici. Siamo di fronte all’esempio – storico, prima ancora che rugbistico – di una vicenda umana che ha superato le segregazioni, i morti, le ingiustizie; per creare il Sudafrica attuale, quella nazione nata nel 1994, pacificando le sue comunità, quelle comunità che sembravano destinate a combattersi per sempre. Oggi la “nazione arcobaleno”, pur tra molte contraddizioni, è la più ricca e democratica del continente. E anche il rugby ha fatto la sua parte: con la vittoria mondiale degli Springbok nel 1995, Springbok che molti neri avrebbero voluto cancellare, perché emblema dell’orgoglio bianco e boero. Fu Nelson Mandela a dire di no, con uno scatto visionario: immaginando che quella coppa avrebbe contribuito ad unificare il paese. E fu così. E adesso spostiamoci diecimila chilometri a Nord, dove, nel 1948, nacque lo stato di Israele, segnando la prima sconfitta araba in Palestina. Dopo altre guerre, quella dei 6 giorni nel 1967, quella del Kippur nel 1973, le diverse intifada, l’allargamento al conflitto in Libano, i poi gli attentati, e ancora i massacri, fino all’anacronistica creazione dei territori palestinesi, privi di una vera indipendenza, sostanzialmente confinati e assediati. Diciamo subito che la questione non permette di attribuire la “ragione” a nessuno. Il sionismo, dopo il secondo conflitto mondiale e la Shoah, ha riportato gli ebrei nella loro terra storica. L’ONU riconobbe lo stato di Israele, senza attribuire altrettanto peso alla comunità araba, ormai insediata da secoli in Palestina. Nessuno cercò un vero compromesso, nessuno propose una soluzione, e le prime guerre furono condotte dagli arabi con un solo e unico scopo: cancellare Israele, rimandare gli ebrei da dove erano venuti. Ma più avanti la nazione di Davide, vincitrice dei conflitti militari, non accettò mai veramente la formula dei “due popoli in due stati”. La pace fu sfiorata, e quasi resa concreta, da Yitzhak Rabin, primo ministro israeliano, Yasser Arafat, leader dell’OLP, e Bill Clinton, allora presidente degli USA. Il loro accordo valse a Rabin e Arafat, insieme a Simon Peres, il Nobel per la pace del 1994. Ma, un anno dopo, Rabin fu ucciso da un estremista religioso del suo stesso paese. Tutto tramontò, i falchi di entrambe gli schieramenti resero inapplicabili gli accordi e le violenze ripresero il loro corso. La storia talvolta evidenzia date emblematiche: il 1994 sembrava aver posto sulla rotta della pace sia il Sudafrica che la Palestina. Ma i risultati furono diametralmente opposti. Perché? Probabilmente dal confronto con la “nazione arcobaleno” si ottiene una risposta. In Sudafrica la religione non governa le genti: buona parte dei bianchi e dei neri sono cristiani, i restanti, animisti, non hanno un credo che si mescola alla politica. Anzi, nel processo di pace, fu un uomo di fede, l’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, ad affiancare Mandela nel suo compito, portando alla luce i concetti di “perdono” e “riconciliazione”. Diecimila chilometri a nord, invece, si confrontano due religioni monoteiste, rigide e totalmente mal disposte al riconoscimento reciproco. Israeliani e palestinesi, ebrei e mussulmani, non si confrontano, si contrappongono, talvolta fino al nichilismo. Entrambe le religioni si differenziano dal mondo cattolico per un primo evidente presupposto: non sono religioni “riformate”, non si sono mai adeguate al cammino dei tempi, sono rimaste le medesime dalla più profonda antichità.

Sarebbe come se il cattolicesimo fosse sempre lo stesso dalle crociate in avanti; invece, concilio dopo concilio, la chiesa romana è cambiata, a volte profondamente. Inoltre la religione ebraica e l’islam non hanno un capo assoluto, ma sono mondi chiusi, dove rabbini e imam rappresentano un’autorità frammentaria. Mentre la presenza di un leader semplificherebbe contatti, accordi, confronti, probabilmente compromessi. Hamas, come Hezbollah, è un movimento confessionale e intransigente, dove l’odio per Israele è un formidabile collante per mantenere autorità e legittimazione. Israele è l’unico stato democratico dell’area? Sicuramente si. Ma è comunque una realtà politica confessionale anch’essa, dove la destra religiosa non accetta nessuna formula praticabile di pace, perché la pace nasce dal compromesso e dal reciproco riconoscimento. Nelson Mandela diceva: Se vuoi fare la pace col tuo nemico, devi lavorare col tuo nemico. Così lui diventerà tuo alleato”. Lo stesso concetto espresso da Arrigo Levi: “Israele, la pace si fa coi nemici”. Purtroppo la fede, quella estremista dei monoteisti non riformati, una pace ragionevole non la vuole: perché la destra religiosa ebraica sogna ancora “Il grande Israele”, costruito anche attraverso gli insediamenti, arbitrari e provocatori, nei territori palestinesi. Hamas e i suoi alleati, dai ghetti di Gaza che tengono sotto scacco, sognano la cancellazione della stella di David in tutta la Palestina. Esiste un margine di speranza?  Forse si e potrebbe essere anche maggioritario. In Cisgiordania c’è una popolazione palestinese che vive di commerci, che gradirebbe la pace e quel minimo di benessere che settant’anni di storia hanno sinora negato. In Israele, a Tel Aviv, in particolare, si incontra una gioventù laica e occidentale, che ama vivere libera, come fosse a New York o a Miami; il suo mondo è distante anni luce da missili, cannoni e carri armati. I primi dovranno aver ragione, prima che sugli israeliani, sui kamikaze assassini che dettano l’agenda della morte. I secondi dovranno prevalere sul colonialismo anacronistico nei territori, sulla mistica di un esercito che è potente solo se fa la guerra, su una religione che sembra disconoscere il concetto di pietas. Certo, ora è tutto più difficile, terribilmente difficile. L’invasione sanguinaria di Hamas e la pioggia di fuoco su Gaza hanno prodotto un solco inimmaginabile fino al mese scorso, dove gli accordi di Abramo sembravano estendersi anche all’Arabia Saudita. E i morti, da ambo le parti, sono tanti, troppi per essere ignorati. Sono munizioni formidabili per chi vuole solo, e sempre, il sangue dell’altro. Ma in una guerra che nessuno può vincere resta una sola opzione: la pace si fa col nemico. Difficilissimo si, impossibile no. La speranza ha una sola direzione, ed un’unica canzone: l’inno degli Springbok, quello della vittoria nata nel 1994, quando l’inconciliabile divenne conciliabile: diecimila chilometri più a sud.

LAVORI IN CORSO

Cari lettori, in queste settimane Il Mondo di Pannunzio ha ridotto le sue pubblicazioni. Abbiamo iniziato il nostro percorso nel 2021 e, dopo tre anni, vogliano offrirvi un restyling grafico ed editoriale della nostra testata. Con questo obiettivo stiamo lavorando, e quindi si è resa necessaria una parziale sospensione delle attività. Abbiamo comunque voluto proporvi il nostro contributo per affrontare insieme il momento di politica internazionale che stiamo vivendo. Il Mondo di Pannunzio tornerà alla sua attività il prima possibile. Certi che le novità che stiamo progettando vi saranno gradite.

VIAGGI

IL VIAGGIO COME ARTE NECESSARIA

Guido Barosio

Wanderlust significa letteralmente ‘desiderio di vagabondare’, passione irrefrenabile per il viaggio e per tutto ciò che al viaggio si collega.

L’uomo è una specie nomade e questo ha segnato il suo destino. La start up africana lo ha portato, in un percorso di milioni di anni, a spostarsi per strette necessità alimentari attraverso i continenti. Raccoglitore e cacciatore doveva muoversi, solo la scoperta dell’agricoltura, molto più tardi, rese interessante l’insediamento. Ma neppure troppo. Anche dopo la conquista umana del pianeta ogni civiltà meritevole di essere ricordata ha guardato oltre, dando seguito ad un principio fondante: solo i popoli nomadi sono portatori di novità, energie, saperi e cultura. Per gli stanziali sconfitte e sottomissioni. I vincitori hanno scritto la storia: macedoni, romani, arabi, gli spagnoli e gli inglesi dei grandi imperi. Le armi sono sempre arrivate dopo l’ossessione per la scoperta: l’uomo, ‘creatura ovunque’ del pianeta, nell’epoca delle grandi esplorazioni ha marciato a ritroso, andando a riacciuffare ciò che aveva abbandonato milioni di anni prima. Necessità e ansia di dominio, ma anche patologia. L’esploratore era sovente un resoluto folle, pronto a mettersi in gioco, vita compresa, con mezzi spesso inadeguati: Colombo come Livingstone, Scott come Umberto Nobile, Pitea come Marco Polo. Persino gli astronauti americani che andarono sulla Luna sfidarono il destino accomodandosi in un capsula grande come una cantina, sotto un razzo enorme, per completare la missione su un traballante baracchino e scendere in landa selenita. A seguire il ritorno a casa compiendo il percorso inverso. Dei pazzi. Ma, oltre al DNA originario, c’è anche una spiegazione clinica, che da quel DNA originario deriva. La patologia ha per nome sindrome di Wanderlust, e significa letteralmente ‘desiderio di vagabondare’, passione irrefrenabile per il viaggio e per tutto ciò che al viaggio si collega: programmazione, desiderio, fuga, irrequietezza, cancellazione di ogni soglia nel rischio, appagamento solo momentaneo e irrefrenabile desiderio di ripartire. Gli studi sono concordi nell’identificare il ‘gene del viaggio’, denominato DRD4 7R, il recettore della dopamina D4 che regola il livello di curiosità e rende sensibili agli stimoli esterni. Il merito della scoperta va diviso tra David Dobbs e Chaunsheng Cheng. Ma la sindrome di Wunderlast era già nota, anche se non ancora classificata, nell’Ottocento. Ci furono casi di viaggiatori compulsivi che abbandonarono lavoro e famiglia all’improvviso. Una volta riacciuffati, dopo qualche settimana di tregua, ripresero la via della fuga, e così più volte, per la costernazione di amici e parenti. Eredi di Colombo e precursori di Armstrong, solo meno celebri. Ma forse l’elemento più interessante degli studi condotti recentemente riguarda il patrimonio genetico della sindrome. Perché il Wunderlast è un tratto più facilmente rintracciabile proprio nelle popolazioni che discendono dagli antichi migranti africani. Siamo quindi fronte ad una forma ereditaria che è scolpita nell’uomo a partire dai primi nomadi: i cacciatori raccoglitori che colonizzarono il pianeta. Per il viaggiatore moderno questa avventura epocale, che ha attraversato la civiltà umana come una lama saracena, si traduce in una ossessione gentile, che pare possa ammaliare circa il 20% dell’umanità.

Sin troppe cose si sono dette e scritte sulla differenza tra turista e viaggiatore. In realtà il turismo è un fenomeno schiettamente imprenditoriale, che sostanzialmente confeziona un prodotto partendo da un bisogno. Il turista abdica all’organizzazione: sceglie, compera e consuma. Il viaggio come una lavatrice, garanzia compresa. Il viaggiatore – debitore e ostaggio consenziente del Wunderlast originario – invece fa per conto suo: immagina, seleziona, mette mano all’itinerario, sceglie quello che gli serve sul mercato (come nei bazar e nei porti oceanici dei secoli scorsi), decide consapevole che può sbagliare (ma in fondo se ne frega) e poi parte come fosse la cosa più bella da fare al mondo. Per tornare torna, ma mai volentieri. Insomma, esercita una forma d’arte necessaria ai suoi bisogni. Il viaggio contemporaneo toglie e aggiunge allo stesso tempo. Anche solo ai tempi di Chatwin si partiva di meno, i tempi erano molto più lunghi ed i costi considerevolmente più alti. Il Wunderlast del XXI secolo il mondo se lo può girare tutto, sovente e a costi modesti, con la rete pronta ad offrire un grande catalogo dell’ovunque. Virus e terroristi, entrambi globali, sono le brutte sorprese in agguato. Imprevedibili, quindi inutile pensarci. Meglio oggi quindi? Anche no. Perché non si può resistere alla seduzione della ‘voyagenostalgie’. In questo momento ho tra le mani la Guide Hachette ‘De Paris a Constantinople’, edizione primi del Novecento, un mito tascabile. Delle 465 pagine solo 225 sono dedicate a Istanbul. Il resto se ne va per il viaggio: Trieste, Vienna, Budapest, Belgrado, Sarajevo Spalato, Ragusa, Atene, Salonicco, Monte Athos, e, dopo la meta principale, estensione dell’itinerario verso Cipro. Durata, un numero imprecisato di mesi. Le guide del tempo non descrivevano la meta, ma il viaggio. E il viaggio era il tempo necessario per raggiungere il luogo, un tempo fatto di soste e di conoscenze, di incontri e di esplorazioni, di tante tappe, previste e non. Le guide di allora erano capolavori di cartografia miniata, di cultura divulgata, di informazioni testate che diventavano patrimonio condiviso. Abbiamo perso per sempre quelle guide e quei viaggi sono morti con loro. Possiamo solo preservarne lo spirito e l’attitudine, comprendendo che l’aereo aiuta ma annulla, che oggi ci si muove per destinazioni senza raggiungerle apprezzando quello che sta in mezzo. Ma il viaggio sarà sempre carovana, astronave e vascello per i Wunderlast più tenaci. Ce lo rammentano i pionieri della Luna, i navigatori oceanici sui gusci di noce ed il piacere per la storia. Ma soprattutto lavora per noi DRD4 7R, quel ‘gene del viaggio’ che ci connette all’Africa vagabonda dei primi misteri. E adesso quando si parte?