CINEMA
NOMADLAND, UNA SCELTA DI LIBERTA’
Paolo Vieta
Un road movie, intimo, sensibile e profondo.
Il film della regista cinese, trapiantata negli Stati Uniti, Chloé Zhao, prodotto ed interpretato da Frances Mc Dormand è riuscito a vincere tanto il Leone d’oro a Venezia, quanto l’Oscar ad Hollywood come miglior film, oltre ad una quantità di altri premi. Per recensirlo allo spettatore italiano, è necessario però sgomberare il campo da frettolosi e facili pregiudizi, chiarendo bene cosa Nomadland non è e non vuole essere, prima di capire cosa sia e dove ci voglia portare. Fern, vedova sessantenne, lavorava presso una miniera di gesso nel Nevada, chiusa con la recessione del 2008. Abbandonata la casa di Empire, un paese ormai fantasma, tanto da perdere il codice postale, si ritrova a vivere su un modesto van ed a lavorare presso un magazzino Amazon, nel periodo prenatalizio. Dopo cinque minuti, siamo già portati a pensare ad una pellicola di denuncia sociale, un film di Ken Loach, quale Sorry we missed you (2019), in cui la crisi schiaccia una famiglia inglese, costringendo il protagonista ad un lavoro disumano come corriere espresso, moderno schiavo del XXI secolo. Senza voler assolutamente criticare i film politicamente impegnati, che vogliono scuotere le coscienze ed essere un pugno nello stomaco degli spettatori, occorre chiarire che Nomadland non appartiene a questo genere. Nonostante il volto della protagonista, ricordi a qualche cinefilo la poliziotta incinta (lo era davvero) di Fargo (1996) e, più recentemente, la ricerca di giustizia di Mildred, per la figlia stuprata ed uccisa, in Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017), questa vicenda non è dominata dalla casualità del fato, né dalla volontà di denuncia. Se è vero che la scelta di Fern, di accamparsi in un modesto e vetusto furgoncino, è dettata dalla scarsità di mezzi, è parimenti vero che altri nomadi possono permettersi ben altri caravan, come si vede nelle scene al raduno o al negozio. Come è vero che, nel corso dei dodici mesi narrati, si propongono alla protagonista diverse possibili soluzioni di «accasamento», da lei prese in seria considerazione, quindi scartate, in una scelta di libertà. Ancora, è del tutto assente in Nomadland una delle accuse più ricorrenti al sistema americano, quella di non avere un sistema sanitario garantito a tutti, con persone che si rovinano per curarsi; in più scene si mostrano ricoveri, ma non sono preclusi ai nomadi e non v’è cenno al loro costo. Anche la crisi è ormai superata, anzi un ricordo, nelle parole dell’amico immobiliarista: «Le cose vanno bene ora. I prezzi salgono, sai, nel 2012 è andata alla grande. Magari avessimo avuto i soldi nel 2008 per comprare tutto e rivendere adesso. Direi che l’immobiliare esce sempre vincente». Evidentemente si riferisce agli Stati Uniti, non all’Italia. Sgombrato il campo dalle fuorvianti premesse, che cosa è quindi Nomadland? Un road movie, intimo, sensibile e profondo. Fern sceglie una vita solitaria, raminga tra almeno sette degli Stati Uniti del nord-ovest, di libertà. In questa vita c’è spazio per il lavoro, stagionale e precario ma integrato nella società; non v’è traccia del movimento hippy, dal rifiuto del consumismo, alla vita di comunità, all’uso della droga, a temi politici come la contestazione alla guerra in Vietnam. Il lavoro è ben accetto, come mezzo di sostentamento, non come autoaffermazione, e lascia spazio e tempo all’esplorazione ed alla vita.
In un paese dove un’icona del successo, quale gli analisti di Wall Street, protesta per avere una settimana lavorativa «umana» di sole 80 ore, Fern ha il tempo di esplorare l’ambiente, vedere l’oceano, carezzare le sequoie giganti, cercare fossili marini, immergersi in un lago. L’altro tema fondamentale è il rapporto con la natura e l’ambiente, sottolineato da una scelta registica netta, anch’essa premiata con l’Oscar. Non vi sono mezzi termini, le inquadrature sono o primi piani o campi lunghissimi, degni del grande John Ford (da vedere al cinema o almeno su un 50 pollici, non distruggetelo guardandolo sul telefono). La pellicola è molto più descrittiva che narrativa, ci si focalizza sui protagonisti: i personaggi nella loro singola individualità e l’ambiente in cui sono immersi. Dal deserto dell’Arizona all’oceano Pacifico, è la vastità, per lo più fredda nelle temperature e nei colori, a fare da scenario ai liberi movimenti dei nomadi, creando un rapporto uomo-natura che ricorda Into the wild (2007). Anche in questo caso, pur nella netta preferenza per un turismo ambientale e non antropologico (ci si accontenta di vedere Mount Rushmore in un modellino), non ritroviamo alcun cenno a tematiche ambientali di denuncia sull’inquinamento o sul riscaldamento globale. Anche il paesaggio e il rapporto con la natura sono vissuti individualmente. In questo peregrinare, c’è spazio per genuini rapporti umani; la solidarietà e l’aiuto reciproco, l’amicizia e lo scambio di esperienze e sentimenti profondi, i rapporti con la famiglia «stanziale», il ricordo di un amore passato e l’affacciarsi di uno presente. La vita in un van impone una scelta di semplicità, se non proprio di povertà, ed in questo minimalismo gli oggetti acquistano un valore altro, rispetto al consumismo, un valore alto: un apriscatole il ricordo di un amico incontrato e lasciato, un piatto dipinto il ricordo di una famiglia e di una giovinezza ormai lontane. Il tutto raccontato con la semplicità del realismo dei problemi quotidiani, in ambienti veri, con attori comprimari che recitano sé stessi, essendo nomadi nella vita, come sullo schermo. Per meglio calarsi nella parte, Frances McDormand, moglie di Joel Coen, ha dormito sul van per quattro mesi e da questa interpretazione ha tratto il terzo Oscar come attrice protagonista, seconda solo a Katharine Hepburn (per gli amanti delle statistiche Maryl Streep ne ha solo due come miglior attrice protagonista, il terzo è come miglior attrice non protagonista, anche se ha avuto ben ventuno nomination). Quella di vivere in un van, girando di stagione in stagione tra uno stato e l’altro, è una scelta di libertà, compiuta con qualche rinuncia, per vivere fino in fondo l’ambiente naturale e la vita: per un malato terminale è meglio andare a morire in Alaska, che passare gli ultimi mesi in un letto d’ospedale. La sorella della protagonista, pur accasata, nel dolore di averla lontana, la comprende e la giustifica: «Quello che fanno i nomadi non è molto diverso da quello che fecero i pionieri, Fern porta avanti una tradizione americana». Non è un caso che la regista cinese Chloé Zhao abbia scelto l’America per trovare e raccontare questo stile di vita, quando altrove, il controllo governativo, anche tramite app sugli smartphone, non lo renderebbe possibile. Nonostante tutto, gli Stati Uniti d’America sono ancora il paese della libertà.