SPORT
NEL CAOS DEL CALCIO CI MANCA LA PUREZZA DI GAETANO SCIREA
Darwin Pastorin
Sì, quanto ci manca questo uomo e questo calciatore!
Alla mostra fotografica di Caselle Torinese dedicata a Gaetano Scirea, il giocatore più puro del nostro calcio, morto giovane, il 3 settembre 1989, in una strada polacca, quando era vice-allenatore della sua Juve, la Juve del suo amico fraterno Dino Zoff, osservavo le immagini del maestro Salvatore Giglio e, a ogni ritratto, mi coglieva un senso profondo di nostalgia, di ‘mancanza’: ritrovavo in ogni magistrale scatto la tenerezza e la meraviglia del mio amico caro. E sentivo ancora, addosso, il suo abbraccio, così caldo, così sincero, a ogni nostro incontro. Ecco, prendete questa foto: Gaetano e Paolo Rossi che, in bianconero, si abbracciano, felici, sorridenti, dopo un gol. C’è l’allegria dei ragazzi che, seppure assi celebrati, campioni del mondo, non hanno smarrito la loro innocenza, il bene segreto della loro fanciullezza, quando, nell’inseguire un pallone, inseguivano la vita, il futuro, la speranza. Poi, le altre immagini: Scirea pubblico e Scirea privato, in casa con la moglie Mariella e il figlio Riccardo e poi la ‘figurina’ con la maglia della Juventus e della nazionale: lui, che ha saputo vestire la gloria, in ogni frangente, con umiltà, senza mai lasciarsi andare in un peccato, anche minimo, anche superficiale, di arroganza o di presunzione. Sì, quanto ci manca questo uomo e questo calciatore! Soprattutto oggi, in un calcio avvolto e stravolto dal caos, dal marketing che ha sostituito il dribbling, dalla prosa dura che ha preso il posto della leggerezza della poesia, dagli assi così distanti, pronti ad apparire soltanto sui social. A un pallone carico di rancori e veleni servirebbe uno come Gaetano a riportare la ‘normalità’. A far tornare tutti sulla terra. A rendere le cose più semplici, più vere. Gaetano Scirea, aveva ragione Enzo Bearzot,
il Vecio narrato da Giovanni Arpino, era per davvero un angelo arrivato, per dolcezza mostrare, sui campi verdi. Giocava da libero, e ‘libero’ lo era per davvero e non solo come ruolo: non è mai stato espulso, ammonito una sola volta (o due), non aveva bisogno di far male all’avversario per fermarlo: conosceva l’arte dell’anticipo, in tutto c’è stata bellezza. Era un calciatore ‘universale’, capace di trasformarsi in un centrocampista ispirato o in un autentico goleador. Giocava a testa alta, colpiva di tacco, si muoveva sull’erba leggero, possedeva un senso innato della posizione, a guidarlo erano le stelle e i raggi del sole. Era di poche parole, mio fratello Gaetano: ma, come tutti i leader autentici, parlava con i suoi silenzi, con uno sguardo. Non aveva bisogno, mai, di alzare la voce, di urlare. E in quei tempi, senza procuratori, senza manager, senza assillanti uffici stampa, dove l’unico filtro con il mondo estero era rappresentato dalla segreteria del telefono fisso, Scirea rispondeva a tutti: al ragazzo del giornalino di quartiere e all’inviato speciale del New York Times: e a tutti, alla fine, diceva, semplicemente, ‘grazie’. Grazie per aver chiamato, per aver pensato a me, per le vostre domande e i vostri giudizi. Era un prodigio, era un’epifania, era il pane in tavola. Spesso, durante presentazioni o convegni, i giovani mi chiedono di citare un esempio di perfezione del calcio. Io non ho dubbi e comincio a narrare di Gaetano Scirea. Che vinse tutto senza mai farsi abbagliare dalle luci della ribalta. Continuo a sentirlo vicino, soprattutto quando la mia strada prende a farsi faticosa: ripenso ai suoi consigli e tutto ritorna sereno, azzurro come un cielo recuperato di primavera.