POLITICA
LISCIA, GASATA O SCHLEIN?
Massimo Rostagno
Wanderlust significa letteralmente ‘desiderio di vagabondare’, passione irrefrenabile per il viaggio e per tutto ciò che al viaggio si collega.
Schlein ha vinto!Evviva Schlein!
Contro tutti i pronostici della vigilia, la giovane candidata alla segreteria Pd ha sbaragliato l’avversario sommergendolo sotto una valanga di schede con il proprio nome difficile sbarrato con una croce. La reazione dell’opinione pubblica, da inizialmente cauta, si è rapidamente trasformata in un’effervescente celebrazione della novità. Una botta di vita in uno scenario – quello del partito democratico – da tempo esangue, stantio. Ed effettivamente, la novità c’è ed è grossa. Non solo perché per la prima volta una donna, per di più giovane, sarà alla guida del maggior partito dell’opposizione. Ma perché Elly condensa una serie di tratti esistenziali e politici cui l’elettore medio democratico non è certo abituato. È una orgogliosa esponente del mondo LGBT; sprizza cosmopolitismo da tutti i pori; ha alle spalle un curriculum da agitatrice movimentista, talmente allergica alle liturgie di partito da essersi iscritta a quello democratico soltanto due mesi prima, per diventarne la leader. Eppure, nonostante la sua vittoria lanci il cuore oltre l’ostacolo della profonda crisi del Partito democratico, ne è al tempo stesso la spia. Le modalità della sua vittoria sono sconcertanti. Mai era accaduto che nelle barocche procedure per l’elezione del segretario emergessero delle lacerazioni, delle differenze di sensibilità così marcate. Certo il PD negli ultimi anni non ha brillato per capacità di intercettare gli umori che si agitano nella società, ma si presumeva che intercettasse almeno quelli del proprio elettorato. E invece no. Il “partito degli iscritti” è andato in una direzione, il “popolo delle primarie” dall’altra. Questa inedita contrapposizione è un grande indicatore del livello di sclerotizzazione, di separatezza tra i non molti militanti che perseverano generosamente nell’ alzare ogni giorno la saracinesca della sezione ed il resto della società. È come se alcuni irriducibili si ostinassero a vivere in un mondo che non esiste più. Anche nella scelta del popolo delle primarie, di quel milione abbondante di simpatizzanti in fila ai gazebo elettorali, c’è però qualcosa di paradossale. Guardiamo con freddezza i termini della sfida: da una parte Stefano Bonaccini, ferrigno figlio del proletariato, con padre camionista e madre operaia, dirigente di lungo corso e soprattutto espressione dell’unica classe dirigente comunista al mondo che ha prodotto benessere, efficienza e persino buonumore: quella emiliana. Oltrettutto collaudatissimo nella sua capacità di governo, temprata in anni di amministrazione. Dall’altra, Elly Schlein: figlia di accademici; nata negli Stati Uniti con successive scuole in Svizzera; sorella di diplomatici e di matematici; esperienza nella campagna elettorale di Barack Obama. Sarebbe anacronistico riandare a quando Marx contrapponeva ‘borghesia ‘ e ‘proletariato’ nella lotta mondiale per il superamento del modo di produzione capitalistico. E ancora più proiettare quella contrapposizione sulle figure dei due contendenti, in una sorta di classismo alla rovescia. Ma ancora in tempi recenti, quando qualche riferimento culturale esisteva, scegliere la guida di un grande partito progressista poteva avvalersi di una mappa di orientamento. E pochi dubbi ci sarebbero stati nella scelta tra un figlio del popolo, acculturato, solido e temprato nell’arte della direzione politica e una agiata figlia della borghesia internazionale, che ha svolazzato da un’esperienza radicale all’altra, da un estremismo all’altro. Quella mappa culturale avrebbe valorizzato l’esperienza, la continuità della militanza, la scaltrita conoscenza dei meccanismi di partito identificando nel primo il più adeguato a guidare un partito progressista, in grave crisi di consenso. Ma quella era la società di ieri, fatta di ancoraggi stabili, di identità riconoscibili e protratte nel tempo, persino di coerenza: ferrivecchi spazzati via dalla fluidità contemporanea. E infatti, in quell’ultima domenica di febbraio, la giovane radicale è stata la prescelta, contro tutti i pronostici ragionevoli.
Nella sua campagna elettorale Elly Schlein non soltanto ha abitato molto bene gli spazi mediatici, contagiando con la sua assertività e il suo entusiasmo giovanile gli spettatori. Soprattutto, ha dato l’impressione di appartenere al nostro tempo, di essere figlia della contemporaneità, in cui l’istante conta più della storia, l’emozione più del pacato ragionamento, la comunicazione più della realizzazione. Dietro i semplicistici slogan elettorali sulla diseguaglianza, sul salario minimo e sull’ecologia, ha comunicato ciò che oggi conta di più, ciò che più fa aumentare i propri follower: passione, radicalità, estremismo. La scelta del popolo delle primarie non è quindi stata soltanto paradossale. È stata anche terribilmente contemporanea. E la vittoria di Elly Schlein sancita da quel popolo ci parla del nostro tempo, ci indica ciò che siamo (o siamo diventati). Dal punto di vista più strettamente politico, la Schlein appare come la continuazione del grillismo con altri mezzi, anche se le sue modalità comunicative, i suoi slogan elementari sembrano un calco appena un po’ più civilizzato del linguaggio pentastellato. Ciò che sembra però chiaro è che il Partito democratico come era stato concepito, con Schlein non esiste più. A meno di retromarce e di inversioni di rotta di 180 gradi, Schlein rappresenta lo snaturamento del progetto democratico, nato nel 2007 con Walter Veltroni per fondere le tradizioni riformiste italiane a partire da quelle postcomuniste e cattoliche. Questo progetto politico è completamente fuori dall’orizzonte della nuova segretaria, se le parole conservano un minimo di peso e di senso. Peraltro non c’era bisogno che arrivasse lei perché il Partito democratico smarrisse la propria natura. Ci aveva già pensato da solo. Che cosa è stato lo sdoganamento del populismo grillino, la proclamazione di Conte come “punto di riferimento fortissimo di tutta la sinistra europea” se non la rinuncia di sé? La negazione profonda della propria ragion d’essere originaria? La scelta di Elly Schlein come segretaria del partito non è che l’esito di quel processo di avvicinamento al populismo grillino. E d’altro lato, la responsabilità dimostrata e la qualità stessa della propria classe dirigente non hanno impedito al PD di essere percepito come un partito per tutte le stagioni, disponibile a governare con chiunque, con tutte le formule, quasi in ossequio al motto andreottiano che “ il potere logora chi non ce l’ha” . Stretto nella tenaglia tra populismo e governismo, il Partito democratico non è sopravvissuto, riducendosi ad una confederazione di correnti dorotee attente solo alla spartizione di nomine, cariche, ministeri e candidature. Certo la segreteria Schlein mette in moto le cose. Può aprire orizzonti nuovi, spazi inediti dentro e soprattutto fuori dal Partito democratico. È in fondo divertente e porta aria nuova, anche se con il suo radicalismo verbale rischia di diventare la miglior nemica della premier Giorgia Meloni, l’avversario politico che ogni governante vorrebbe avere. Può darsi che Elly Schlein non sia solo grillismo condotto con altri mezzi, ma rappresenta comunque la certificazione della fine del Partito democratico, che nominalmente continuerà certo ad esistere, ma come altro da sé: un’eutanasia gentile, fresca, ma non meno definitiva.
VIAGGI
IL VIAGGIO COME ARTE NECESSARIA
Guido Barosio
Wanderlust significa letteralmente ‘desiderio di vagabondare’, passione irrefrenabile per il viaggio e per tutto ciò che al viaggio si collega.
L’uomo è una specie nomade e questo ha segnato il suo destino. La start up africana lo ha portato, in un percorso di milioni di anni, a spostarsi per strette necessità alimentari attraverso i continenti. Raccoglitore e cacciatore doveva muoversi, solo la scoperta dell’agricoltura, molto più tardi, rese interessante l’insediamento. Ma neppure troppo. Anche dopo la conquista umana del pianeta ogni civiltà meritevole di essere ricordata ha guardato oltre, dando seguito ad un principio fondante: solo i popoli nomadi sono portatori di novità, energie, saperi e cultura. Per gli stanziali sconfitte e sottomissioni. I vincitori hanno scritto la storia: macedoni, romani, arabi, gli spagnoli e gli inglesi dei grandi imperi. Le armi sono sempre arrivate dopo l’ossessione per la scoperta: l’uomo, ‘creatura ovunque’ del pianeta, nell’epoca delle grandi esplorazioni ha marciato a ritroso, andando a riacciuffare ciò che aveva abbandonato milioni di anni prima. Necessità e ansia di dominio, ma anche patologia. L’esploratore era sovente un resoluto folle, pronto a mettersi in gioco, vita compresa, con mezzi spesso inadeguati: Colombo come Livingstone, Scott come Umberto Nobile, Pitea come Marco Polo. Persino gli astronauti americani che andarono sulla Luna sfidarono il destino accomodandosi in un capsula grande come una cantina, sotto un razzo enorme, per completare la missione su un traballante baracchino e scendere in landa selenita. A seguire il ritorno a casa compiendo il percorso inverso. Dei pazzi. Ma, oltre al DNA originario, c’è anche una spiegazione clinica, che da quel DNA originario deriva. La patologia ha per nome sindrome di Wanderlust, e significa letteralmente ‘desiderio di vagabondare’, passione irrefrenabile per il viaggio e per tutto ciò che al viaggio si collega: programmazione, desiderio, fuga, irrequietezza, cancellazione di ogni soglia nel rischio, appagamento solo momentaneo e irrefrenabile desiderio di ripartire. Gli studi sono concordi nell’identificare il ‘gene del viaggio’, denominato DRD4 7R, il recettore della dopamina D4 che regola il livello di curiosità e rende sensibili agli stimoli esterni. Il merito della scoperta va diviso tra David Dobbs e Chaunsheng Cheng. Ma la sindrome di Wunderlast era già nota, anche se non ancora classificata, nell’Ottocento. Ci furono casi di viaggiatori compulsivi che abbandonarono lavoro e famiglia all’improvviso. Una volta riacciuffati, dopo qualche settimana di tregua, ripresero la via della fuga, e così più volte, per la costernazione di amici e parenti. Eredi di Colombo e precursori di Armstrong, solo meno celebri. Ma forse l’elemento più interessante degli studi condotti recentemente riguarda il patrimonio genetico della sindrome. Perché il Wunderlast è un tratto più facilmente rintracciabile proprio nelle popolazioni che discendono dagli antichi migranti africani. Siamo quindi fronte ad una forma ereditaria che è scolpita nell’uomo a partire dai primi nomadi: i cacciatori raccoglitori che colonizzarono il pianeta. Per il viaggiatore moderno questa avventura epocale, che ha attraversato la civiltà umana come una lama saracena, si traduce in una ossessione gentile, che pare possa ammaliare circa il 20% dell’umanità.
Sin troppe cose si sono dette e scritte sulla differenza tra turista e viaggiatore. In realtà il turismo è un fenomeno schiettamente imprenditoriale, che sostanzialmente confeziona un prodotto partendo da un bisogno. Il turista abdica all’organizzazione: sceglie, compera e consuma. Il viaggio come una lavatrice, garanzia compresa. Il viaggiatore – debitore e ostaggio consenziente del Wunderlast originario – invece fa per conto suo: immagina, seleziona, mette mano all’itinerario, sceglie quello che gli serve sul mercato (come nei bazar e nei porti oceanici dei secoli scorsi), decide consapevole che può sbagliare (ma in fondo se ne frega) e poi parte come fosse la cosa più bella da fare al mondo. Per tornare torna, ma mai volentieri. Insomma, esercita una forma d’arte necessaria ai suoi bisogni. Il viaggio contemporaneo toglie e aggiunge allo stesso tempo. Anche solo ai tempi di Chatwin si partiva di meno, i tempi erano molto più lunghi ed i costi considerevolmente più alti. Il Wunderlast del XXI secolo il mondo se lo può girare tutto, sovente e a costi modesti, con la rete pronta ad offrire un grande catalogo dell’ovunque. Virus e terroristi, entrambi globali, sono le brutte sorprese in agguato. Imprevedibili, quindi inutile pensarci. Meglio oggi quindi? Anche no. Perché non si può resistere alla seduzione della ‘voyagenostalgie’. In questo momento ho tra le mani la Guide Hachette ‘De Paris a Constantinople’, edizione primi del Novecento, un mito tascabile. Delle 465 pagine solo 225 sono dedicate a Istanbul. Il resto se ne va per il viaggio: Trieste, Vienna, Budapest, Belgrado, Sarajevo Spalato, Ragusa, Atene, Salonicco, Monte Athos, e, dopo la meta principale, estensione dell’itinerario verso Cipro. Durata, un numero imprecisato di mesi. Le guide del tempo non descrivevano la meta, ma il viaggio. E il viaggio era il tempo necessario per raggiungere il luogo, un tempo fatto di soste e di conoscenze, di incontri e di esplorazioni, di tante tappe, previste e non. Le guide di allora erano capolavori di cartografia miniata, di cultura divulgata, di informazioni testate che diventavano patrimonio condiviso. Abbiamo perso per sempre quelle guide e quei viaggi sono morti con loro. Possiamo solo preservarne lo spirito e l’attitudine, comprendendo che l’aereo aiuta ma annulla, che oggi ci si muove per destinazioni senza raggiungerle apprezzando quello che sta in mezzo. Ma il viaggio sarà sempre carovana, astronave e vascello per i Wunderlast più tenaci. Ce lo rammentano i pionieri della Luna, i navigatori oceanici sui gusci di noce ed il piacere per la storia. Ma soprattutto lavora per noi DRD4 7R, quel ‘gene del viaggio’ che ci connette all’Africa vagabonda dei primi misteri. E adesso quando si parte?