ATTUALITA’

LIBANO, L’UTOPIA SPEZZATA

Guido Barosio

“se avete forza e agite, cambierete la storia ” (traduzione della scritta in arabo sulla foto)

Ore 22 e 30 del 17 ottobre 2019, con altri colleghi esco da un ristorante nel cuore di Beirut, uno di quei locali dove la straordinaria cucina libanese si accorda attraverso decine di mezzeh, microportate che esaltano spezie, legumi e verdure con infinita e millenaria fantasia. Tra i tavoli canti e balli improvvisati, sintomo evidente di una felicità cercata ed esibita, il tratto più evidente di un popolo composito, vitale e martoriato. Un approdo come tanti nella culla del Levante. Patria di civiltà che si sono combattute ma anche integrate attraverso processi complicati e sorprendenti, con il passaggio, nei secoli, di fenici, romani, eserciti arabi e cristiani, sciiti, sunniti, maroniti, drusi, francesi… E, uscendo da un ristorante come questo, pensi al bello di una avventura umana che ha saputo arginare le armi attraverso un’avventurosa coesistenza, fragile ma affascinante. Ma fuori, percorsi pochi passi, la strada viene invasa da uno sciame di motorini dai clacson assordanti, alla guida centinaia di giovani con la bandiera nazionale del cedro. Il primo pensiero è che si tratti della celebrazione per una vittoria sportiva, così li guardi e sorridi complice. Poi alcuni giovani, col volto coperto, scendono e rovesciano i cassonetti in mezzo alla strada dandoli alle fiamme. Uno, dieci, cinquanta, e le vie diventano un rogo. Ancora non lo sapevo, ma quella era la start up di una nuova rivoluzione libanese, la dissoluzione di un sistema politico e religioso (i due confusi e aggrovigliati) che sarebbe culminata nell’esplosione al porto il 4 agosto, 10 mesi più tardi. Come sovente accade la rivoluzione prese il via da un episodio apparentemente irrilevante: una nuova tassa (dopo altre ben più consistenti) sull’uso della messaggeria whatsapp. Ma per il grande incendio tutti gli ingredienti erano già apparecchiati. Il giorno seguente i motorini erano un fiume in piena, tutta Beirut un rogo, una folla di giovani (maschi e femmine) a presidiare le piazze e marciare, il Libano intero paralizzato, la bandiera col cedro a testimoniare la rivolta di tutti, indipendentemente dalle confessioni religiose. Sono stato tra i pochi giornalisti internazionali a risalire la corrente fino alla Moschea di Mohammed al-Amin e alla piazza dei Martiri. Il mood della rivolta, un misto di gioia e di rabbia, era spiazzante: per l’età dei partecipanti – quasi nessun adulto– per la colonna sonora – tanti furgoni con le casse a tutto volume e musica da ballo – per il continuo filmare e diffondere gli eventi con gli smartphone. Lo straniero, ed eravamo veramente pochissimi, accolto con il sorriso e incitato a testimoniare a sua volta. La sensazione era di assistere ad una delle prime rivolte globali del nuovo millennio: generazionale, tecnologica, musicale, totalmente priva di appartenenza politica. Anzi, tutti gli schieramenti dello scacchiere libanese erano contestati in blocco. Di li a pochi giorni la canzone della rivolta sarebbe stata ‘Bella ciao’, cantata in arabo, ne troverete evidenti testimonianze su You-Tube. Nei mesi seguenti sarebbero sempre stati i ragazzi di Beirut l’avanguardia di un movimento ormai inarrestabile, ma messo a dura prova da un sistema solidamente clientelare, arroccato nella spartizione religiosa del potere, catastrofico nella gestione dell’economia, totalmente delegittimato a livello internazionale, però frutto di equilibri che nessuno sembra avere il coraggio o la forza di mettere in discussione. I ragazzi di Beirut sono colti, fierissimi della propria appartenenza nazionale, ma cosmopoliti, affascinati dalla cultura occidentale, parte integrata di un mondo organizzato attraverso la rete e i social, indifferenti (e anche ostili) verso una politica organizzata attraverso appartenenze religiose, clan familiari, eserciti privati e oligarchie economiche. Sono i giovani libanesi che hanno tutto da perdere in uno scenario economico e politico che non offre alcuna garanzia per il futuro. Una consapevolezza che – attraverso la rabbia – li porta a sognare un’altra nazione, radicalmente differente, che si contrappone a quella concepita dalle generazioni precedenti, oggi deluse e rassegnate, apparentemente immobili, difficilmente in grado di cambiare pur di fronte alla catastrofe. Catastrofe dai contorni ormai evidenti. Il Libano è un paese potenzialmente ricco – e in parte lo è stato per davvero, quando, nei primi Anni Settanta, era la ‘Svizzera del Medio Oriente’ – ma ormai arrivato al default. Il sistema bancario corrotto divora letteralmente le rimesse dei libanesi all’estero (dove la diaspora tocca i 14 milioni), l’80% delle derrate alimentari provengono da altri paesi, il tasso di povertà ha raggiunto il 60%, i conti correnti in dollari sono congelati dall’ottobre 2019 e il dollaro cambiato in nero ha un valore otto volte superiore al cambio ufficiale, il debito pubblico ha raggiunto il 175% del PIL, l’inflazione il 90% all’anno. Da un abisso di questo genere si emerge solo con un formidabile Piano Marshall internazionale, ma l’economia globale – già alle prese col Covid, peraltro fuori controllo nel paese dei cedri – chiede una politica solida anche solo per ipotizzare un simile intervento. Doveroso a questo punto smantellare il ‘sistema libanese’, fondato sull’immobilismo e sulla spartizione del potere. Dopo la guerra civile, che incendiò il paese tra il 1975 e il 1990, causando 150mila vittime, sembrò che la migliore soluzione fosse quella di assegnare alle maggiori comunità religiose le principali cariche istituzionali, indipendentemente dai risultati elettorali.

Così, ancora oggi, il presidente della repubblica è cristiano maronita, il primo ministro sunnita e il presidente del parlamento sciita. Un equilibrio di cristallo ma stabile, raggiunto in un paese dove non si celebra un censimento dal 1932 proprio per evitare una conta aggiornata. Secondo le più recenti ricerche, i 6,6 milioni abitanti si dividono in 17 comunità religiose, le più consistenti sono: sciiti (31%), sunniti (29%), drusi (5%), cristiani maroniti (20%), greci ortodossi e altri cattolici (12%), armeni (3%). La comunità internazionale ha individuato come unico, possibile, percorso, quello di un governo di unità nazionale – senza vincoli di appartenenza – che modifichi la costituzione preparando le prime elezioni del ‘nuovo Libano’. Strategia che presenta molte incognite, la prima legata alle dimissioni dell’attuale primo ministro Hassan Diab, perché gli attuali ordinamenti non pongono limiti di tempo per la designazione di un nuovo premier. Ma il vero ostacolo sembra essere quello di Hezbollah (partito di Dio): il partito nazione sciita che ha la sua roccaforte nella Valle della Biqaa e che governa autonomamente una consistente porzione di territorio. Guidato con mano sicura da Hassan Nasrallah, emanazione politica (ma anche militare) dell’Iran, questa formazione dispone di un proprio esercito (in assoluto più organizzato e temibile di quello nazionale) ignorando – ma si potrebbe dire avversando – ogni prospettiva di trasformazione radicale nel paese. In realtà esistono due volti di Hezbollah: uno politico e istituzionale, con un ‘buon governo’ che lo ha sempre reso gradito alle popolazioni locali, e uno dichiaratamente guerriero, dove l’obiettivo da distruggere, da sempre, è lo stato di Israele. E qui entrano in gioco altri elementi dell’instabilità libanese, vaso di coccio tra le altre potenze regionali: la Turchia, la Siria, Israele e, più in prospettiva, la Russia. Di Hezbollah resta, per chiunque abbia viaggiato in Libano, il ricordo della bandiera, vessillo e monito. In campo giallo compaiono, dipinti nel verde dell’Islam, un globo stilizzato e la mano che regge un fucile da combattimento. Completa lo scenario la scritta, in arabo: “e colui che sceglie per alleati Allah e il Suo Messaggero e i credenti, in verità è il partito di Dio che avrà la vittoria”. Di fronte alla crisi libanese la comunità internazionale si presenta disunita e perplessa, al di la dei 250 milioni di euro stanziati per la tragedia del 4 agosto. Solo la Francia, con la visita lampo di Macron, sembra avere visione e prospettiva, proponendosi come ancoraggio internazionale nella complessa fase della ricostruzione. Obiettivo, non dichiarato ma evidente, quello di assicurarsi una solida posizione strategica in un territorio dove ha a lungo governato. Ma le ombre da chiarire dopo l’esplosione al porto sono tante. Se l’evento può essere letto come la drammatica conseguenza di dieci mesi fuori controllo, sono da valutare le conseguenze (economicamente devastanti) e, soprattutto, le cause. Come possa essere possibile che 2750 tonnellate di nitrato di ammonio restino nell’oblio per sette anni nell’area più vitale della capitale è un quesito imprescindibile. Ancora più inquietante è la meccanica della deflagrazione: casualità, attentato, e, se attentato, da parte di chi e con quali obiettivi. Nessuna rivendicazione ma tanti sospetti e confuse testimonianze. Chiedono giustizia le 200 vittime, chiedono riparazione i 700mila sfollati che hanno abbandonato le 300mila abitazioni distrutte o lesionate. Ma molti di loro sono già tornati, riprendendo a vivere in case senza vetri o senza una parete, case affacciate su un porto che è solo più una voragine. Come nei 15 anni di guerra civile e forse anche peggio. Nella nazione dei cedri chi vuole continuare a vivere stringe da sempre i denti. Ma forse questa volta non basta più: i ragazzi con le bandiere del 17 ottobre dovranno fare i conti una volta per tutte con un recente passato che li ha traditi negandogli il futuro. Nel nuovo Libano non c’è più spazio per compromessi levantini, questa volta si riparte da zero.