CINEMA
JOSEPHINE BAKER, SPREGIUDICATA ICONA DI LIBERTÀ E BELLEZZA SENZA TEMPO
Patrizia Foresto
Anche la torinese fabbrica Lenci, fondata nel 1919, guardò a lei dedicandole una delle sue bellissime e preziose bambole.
La chiamavano la Venere nera, la bella creola con la pelle color ambra antica, al secolo Freda Joséphine Baker, venuta da un’America difficile per lei, quella del proibizionismo dei primi anni del ‘900, quella del colonialismo, del razzismo, della discriminazione, quell’America che mai la amò e che lei combatterà, nata nel 1906 in un quartiere poverissimo di Saint Louis, nel Missouri, non voluta dalla famiglia del padre naturale perché i suoi avi materni furono schiavi ma ricca di una bellezza e di una forza interiore che la porteranno a conquistare le platee di tutto il mondo, fino a diventare una delle più grandi protagoniste del mondo dello spettacolo del ventesimo secolo. Con ferma determinazione la troviamo prima in piccoli lavori a New Orleans, poi nel suo primo spettacolo a Broadway ed infine il salto nella Ville Lumière che stava da poco uscendo dalla Belle Epoque e dall’ Art Nouveau, dove ottenne la nazionalità francese nel 1937. Immaginiamo lo stupore del pubblico parigino e quali sentimenti abbia suscitato quando, nel 1925 vide apparire sul palcoscenico del teatro dei Champs Elysées ed in seguito alle Folies Bergère, prima ballerina della Revue nègre, una bellissima diciannovenne disinibita, sorridente, sensuale, una ragazza creola vestita unicamente di giri di perle e di un casco di 16 banane attorno ai fianchi; statuaria nel suo corpo perfetto, lanciata nella sua ‘danse sauvage’ in un mix vincente di jazz e ritmi afro – americani, nel susseguirsi di movenze plastiche, ricche di elementi tribali in quell’epoca in cui il fascino per la cultura africana era molto sentito. Nacque la star e fu subito successo pieno. Dettò sempre moda senza mai essere volgare, ammirata anche per la particolarità delle sue scelte, dalla sua acconciatura che l’uso della brillantina rendeva lucidissima ed unica, alle sue unghie laccate d’oro, alla scelta dei suoi animali domestici tra cui il suo ghepardo Chiquita con il collare di brillanti che portava con sé in scena perché lei, emancipata e libera da schemi, sapeva osare e lo fece in ogni ambito della sua rocambolesca vita. Il mondo guardava a lei, al suo coraggio, alla sua determinazione, alla sua bravura. Anche la torinese fabbrica Lenci, fondata nel 1919, guardò a lei dedicandole una delle sue bellissime e preziose bambole. Chi non la ricorda nel famoso repertorio di filmati e fotografie in bianco e nero scatenata nel Charleston, il nuovo ballo nato nell’omonima città della Carolina del Sud, di cui divenne l’emblema e che fece conoscere in tutta Europa, sfrenata al suono di ritmi innovativi e ribelli per quel tempo, libera, spontanea, perfetta per quel ballo anch’esso spontaneo ? E’ stata l’oggetto dei sogni di tanti suoi fans, ebbe ben millecinquecento proposte di matrimonio e vari amori e matrimoni. Purtroppo tutti gli appunti ritrovati e scritti di suo pugno non li concretizzò mai in una sua autobiografia completa ma proprio il secondo marito, il direttore d’orchestra Jo Bouillon, scrisse un libro dal titolo ‘Josephine’ a quattro mani con lei. Con lui acquistò il castello di Milandes in Dordogna, luogo da sogno in cui vissero con i loro dodici figli adottivi, di etnia, lingua e colore diversi che lei chiamò “la mia tribù arcobaleno”. Furono il castello e le spese di mantenimento l’inizio dei suoi debiti che la portarono alla bancarotta e fu costretta a continuare ad esibirsi per farne fronte con l’aiuto anche della sua amica Grace Kelly,
la Principessa di Monaco e proprio nel principato riposano le sue spoglie. Una vita al limite del romanzesco: ballerina, cantante, agente del controspionaggio francese durante la seconda guerra mondiale, spia antinazista, ben raccontata nel romanzo più celebre di Johannes Mario Simmel ‘Non è sempre caviale’ di cui è una dei protagonisti. Sostenne la lotta di Martin Luther King, che la vide protagonista coraggiosa accanto a lui di un discorso memorabile, unica donna a parlare alla marcia di Washington nel 1963, impegnata da sempre nella lotta per i diritti della sua gente, l’emancipazione della donna, femminista nel senso più vero e nobile del termine. Fin qui è storia che tutto il mondo conosce ma ora ciò che segue è frutto di una confidenza che nessuno ancora conosce, di vari anni fa, di una torinese che la conobbe quando era diciottenne in occasione della partecipazione della Baker ad uno spettacolo a Torino per una serata di beneficenza dell’Unicef nel 1969 cui parteciparono grandi personaggi internazionali tra cui Juliette Gréco, Claudio Villa e molti altri. La ragazza, che conosceva il francese a perfezione, venne scelta quale hostess accompagnatrice della star per tutto il periodo del suo soggiorno a Torino. Era in uso per le giovani dell’alta borghesia torinese far parte del gruppo delle hostess Fiat, quando gli studi lo permettevano, sotto l’attenta supervisione della mitica Maria Rubiolo, la Tota come fu sempre chiamata, creatrice ed eccezionale curatrice delle Pubbliche Relazioni della Casa torinese. L’incontro avvenne al dodicesimo piano in una suite del Grand Hotel Principi di Piemonte. Raccontò di trovarsi di fronte ad una donna ancora molto bella, giovanile, carismatica sebbene già malata ed a pochi anni dalla sua morte avvenuta a Parigi nel 1975. Ci si può immaginare una donna sicura, pronta ad affrontare il suo ennesimo palcoscenico senza alcun problema ed invece non fu così. Più si avvicinava l’ora dello spettacolo più il panico si impossessava di lei. A letto, sofferente, tutto pareva possibile ma non che quella sera potesse esibirsi. Invece era il suo modo di caricarsi, di esorcizzare la paura da palcoscenico perché anche lei, come molti grandi artisti, non ne fu mai esente, sino alla fine. Poi si scosse di dosso la sua debolezza ed il suo corpo ancora atletico e statuario scivolò in una tuta dorata che ben si poteva ancora permettere, quasi una seconda pelle, tacchi alti dorati, gioielli al collo ed ai polsi, una parrucca riccia, acconciata direttamente sui lunghi, bellissimi capelli corvini della giovane hostess, il suo sorriso e la serata fu un successo. Alla sua morte la Francia le attribuì i massimi onori e le dedicò, incredibile ma vero, non un presumibile luogo legato al mondo dello spettacolo ma la piscina comunale a bordo Senna in piena Parigi. Fu insignita dell’ alta onorificenza di Cavaliere della Legion d’onore da Charles de Gaulle e della Croce di Guerra 1939 – 1945 ed il suo funerale fu celebrato a Parigi con gli onori militari e la partecipazione di un’ingente folla. Di questo Paese che la accolse e l’amò disse “La Francia mi ha dato il suo cuore: il minimo che io possa fare è di darle la vita”.