EMOZIONI
IL RITRATTO FOTOGRAFICO
Enrico Borla
Lo scrittore narra, descrive, riassume un personaggio, eppure questo rimane sfocato e la nostra immaginazione è chiamata a completarlo
Della prima donna di cui mi sono innamorato ricordo solo le trecce bionde e gli occhi azzurri. Avevo credo 10 o 11 anni e lei si chiamava Rebecca Thatcher. Mi preferì Tom Sawyer e le sue Avventure: questa fu l’esperienza primaria del leggere e dell’innamorarsi di un ritratto sconosciuto. Lo scrittore narra, descrive, riassume un personaggio, eppure questo rimane sfocato e la nostra immaginazione è chiamata a completarlo. Della prima donna di cui mi sono innamorato ricordo solo le trecce bionde e gli occhi azzurri. Avevo credo 10 o 11 anni e lei si chiamava Rebecca Thatcher. Mi preferì Tom Sawyer e le sue Avventure: questa fu l’esperienza primaria del leggere e dell’innamorarsi di un ritratto sconosciuto. Lo scrittore narra, descrive, riassume un personaggio, eppure questo rimane sfocato e la nostra immaginazione è chiamata a completarlo. . Questo è il fascino della letteratura: sappiamo la loro storia, il loro carattere ma il volto è nebuloso. Chi potrebbe disegnare Anna Karenina al di là delle mani esili e del volto paffuto, o com’è il ritratto della signora Ramsay in Gita al faro dipinto da Lily?. Tralasciamo Ismaele o il colonnello Buendia assolutamente privi di lineamenti, ma il capolavoro è Madame Bovary, la quale, nel corso del romanzo, ha una trasmutazione del colore degli occhi: azzurri, marroni, nerissimi. Proviamo a fare un passo indietro. Ritratto proviene dal latino retrahĕre, composto di re e trahere, ovvero ‘tirare indietro’, ha la medesima derivazione di ‘ritrarre’ e di ‘ritrattare’. Quindi spostare indietro, distogliere lo sguardo, trascinare qualcuno lontano da un pericolo, rimuovere un proposito, cavare qualcosa a qualcuno, raffigurare qualcuno. Come sia possibile che il gesto di tirarsi indietro e il raffigurare un volto così lontani come immagine derivino da uno stesso verbo? Eppure ritrarre necessita un ritrarsi, questo perché fisiologicamente come ominidi ci siamo fondati sul riconoscimento del volto dei nostri simili, e se questo è impossibile allora siamo costretti ad immaginarli. Ma mentre li immaginino e li ritraiamo strappiamo loro qualcosa, ci appropriamo delle loro caratteristiche e, contemporaneamente, li priviamo della completezza. O diamo loro i tratti e togliamo la loro storia oppure diamo una storia ma rendiamo nebuloso il loro viso. L’impulso al ritratto è un fatto spontaneo e primordiale e si manifesta nella maniera più ingenua, attribuendo un nome a un’immagine generica, come avviene nei disegni dei bambini. Certo con il passare degli anni la riconoscibilità del soggetto nei suoi tratti fisiognomici è essenziale. Nell’ambito del ritratto fotografico, per ‘riconoscimento’ non si intende solo quello di una persona conosciuta (un familiare, un amico, una celebrità), ma più in generale la presa di coscienza del referente del ritratto come di una persona esistente o esistita. I soggetti possono essere anche più persone: si pensi ai ritratti di famiglia o ai ritratti di gruppo.
Il ritratto fotografico, a differenza di un quadro che può avere un soggetto fittizio, sostiene con forza la reale esistenza passata della persona ritratta. Quando fissiamo un ritratto fotografico sappiamo che il soggetto è esistito in quell’ istante e che possedeva quella espressione, quei tratti, quei vestiti ed era inquadrato su un certo sfondo. Null’altro però ci è concesso. Con movimento opposto alla letteratura, il ritratto dice tutto su un volto in quel millesimo di secondo, ma il prima e il dopo spettano allo spettatore. Certo il fotografo potrà dirci alcune cose sulla persona e il luogo della fotografia, se siamo amici o famigliari del soggetto fotografato abbiamo notizie biografiche, ma la fotografia è inesorabile: inquadra l’attimo e tutto ciò che è oltre, dobbiamo desumerlo attraverso la nostra fantasia. La fotografia, attraverso quel genere dalla lunga storia che è il ritratto, è portata spesso a incoraggiare la tendenza classificatoria del nostro processo conoscitivo. Spesso, cioè, agisce come una metonimia, mostrandoci la parte per significare un tutto. Il ritratto fotografico è portato a trasformare persone reali in miti, in simboli, ma in quanto simboli ci donano significato tramite una operazione compiuta dal nostro cervello e dalle conoscenze immagazzinate proiettabili nel cervello. La loro identità individuale è in questo modo ricondotta a un’identità collettiva: i soggetti ritratti sono riconosciuti dall’osservatore come appartenenti a una generalità. La fotografia, in questo senso, più che ritrarre persone ritrae appartenenze. In alcuni casi il singolo viene ricondotto ad una identità collettiva. Si pensi ai reportage di denuncia, di Eugene Smith e Sebastião Salgado. Il riferimento a un’iconografia ben chiara, trasforma i soggetti in icone della sofferenza che possono essere subito riconoscibili, per lo meno da un osservatore occidentale. Salgado inoltre, puntando all’immedesimazione e al coinvolgimento emotivo provocati dalla qualità estetica delle sue foto, cerca di esplicitare la responsabilità collettiva nella sofferenza del singolo. Per gli stessi motivi di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, i ritratti di denuncia sociale sono spesso ritratti ‘ambientati’, che mettono in relazione il soggetto con il suo contesto, allo scopo di sottolineare condizioni di vita precarie o ingiuste. Tuttavia queste operazioni necessitano di una aggiunta. Non sono implicite nello scatto. Occorre la mente culturale dello spettatore per poter decifrare il contesto. Ogni ritratto è in fondo un messaggio in codice inviato a menti in grado di decriptare. L’operazione Enigma è l’archetipo di qualsiasi osservazione di una foto ritrattistica. O come direbbe Heisenberg: “Ciò che osserviamo non è la natura in sé stessa ma la natura esposta ai nostri metodi di indagine”.