SOCIETA’
Eccesso demografico e penuria di cibo distruggeranno il mondo?
Mara Antonaccio
Un mondo in cui ogni forma di libertà personale e di pensiero è stata repressa, vige la subdola manipolazione emotiva.
Chiunque abbia visitato una megalopoli, soprattutto nei Paesi cosiddetti “del Sud del Mondo”, si sarà reso conto della condizione di insostenibile promiscuità abitativa, dell’affollamento, della scarsa igiene di case e vie e gli sarà venuta in mente l’immagine di un’enorme gabbia di uno zoo urbano, in cui la cattività è percepita in maniera minore, poiché gli spazi ampi nascondono le sbarre, che non sempre sono fisiche. Il fenomeno dell’urbanizzazione, che dagli anni ‘70 ha spinto le popolazioni rurali a cercare reddito nelle città (nel 1950 il 30% della popolazione era cittadino, nel 2000 il 50%, mentre tra il 2010-2015 il tasso di urbanizzazione è salito al 75%), ha portato alla creazione di immensi agglomerati urbani, quasi mai cresciuti parallelamente in infrastrutture, viabilità, servizi. Il risultato sono 19 eco-mostri di carne e cemento, 4 nel mondo occidentale e 15 in quello in via di sviluppo; inquinanti, violenti, irrispettosi dei pur minimi standard igienici e di sicurezza, enormi terre di nessuno, nelle cui periferie neppure le Forze dell’Ordine si arrischiano ad entrare. Facile immaginare le necessità alimentari ed energetiche di tante persone racchiuse in spazi ristretti, spesso con redditi bassi e scarsa scolarizzazione. E cosa fanno gli uomini quando sono in condizioni di cattività e di stress? Si comportano come cavie da laboratorio: indeboliti dall’inquinamento, dalla sporcizia, dalla scarsità di cibo, sovvertono le regole della società animale fatta di maschi dominanti, riproduttrici e gregari. In questi agglomerati aumentano aggressività e violenza, il sesso diventa fonte di stress; i rapporti inter umani di qualità diventano sempre più rari, le donne sono bersaglio di violenza e prevaricazione, il cui frutto a volte sono gravidanze indesiderate. Queste donne, molto spesso giovani e giovanissime, partoriscono figli che non possono o non sono in grado di curare, che finiscono ad alimentare le pletore di bambini di strada, fenomeno tristemente noto nelle megalopoli povere. Figlio dell’abbandono infantile, già di per se aberrante, è il genericidio femminile; in molte società far nascere bambine vuol dire caricare la famiglia di un peso insostenibile. Le femmine trovano lavoro meno facilmente e sono bocche da sfamare, improduttive; questo porta all’aborto selettivo, all’abbandono e peggio, all’infanticidio; alle più fortunate spetta una vita da schiave, in balia dei mariti o della prostituzione. In queste condizioni di elevato stress demografico ed alimentare, gli abitanti delle megalopoli si comportano come gli animali in cattività: si scatena la lotta per la sopravvivenza, per conquistare il poco cibo e si ravvisano episodi di sottomissione verso chi vive una condizione migliore. Difficile trovare soluzioni. Mentre nelle grandi città occidentali industrializzate si sta vivendo una inversione di tendenza, cioè il ritorno verso centri più piccoli, nel terzo mondo, dove arretratezza culturale, povertà e scarsa disponibilità di lavoro costringono masse di milioni di persone a restare nelle città-zoo, le megalopoli si espandono. Nei Paesi Occidentali gli stress demografici e sociali vengono leniti somministrando ansiolitici: cioè cibo, tecnologia, beni di consumo inutili, farmaci, che riportano piano piano ad una normalità anestetizzata, i danni profondi restano, se non vengono rimosse le cause. In queste società umane più evolute e sensibili, la sessualità perde di appeal e cresce il numero di chi, soprattutto giovani, non mostra alcun interesse per il sesso; costoro non praticano astinenza volontaria, semplicemente non hanno desideri; inquietante se pensiamo che cibo e sesso sono necessità ancestrali. La loro condizione emotiva li rende incapaci di fare altro che non sia curare il proprio aspetto fisico, mangiare e consumare, limitando al massimo i rapporti sociali e lavorativi; gli hikikomori, adolescenti giapponesi che si chiudono nelle loro stanze per sopravvivere all’intensa pressione sociale imposta dalla loro cultura, ne sono l’emblema.
Negli agglomerati del terzo mondo invece si fa poco o niente, si cerca di limitare le nascite con mezzi a volte dittatoriali, a volte ridicoli; si contengono le pressioni sociali e si lascia vivere le persone in quei gironi infernali: chi sarà capace sopravvivrà, chi no, soccomberà, in una sorta di auto-igiene demografica. Il sovrappopolamento delle metropoli sta trasformando gli abitanti in ratti da laboratorio, stressati per scarsità di spazi e di cibo? Questa tendenza segnerà l’apice evolutivo della nostra Società schiava del Capitalismo? E’ l’inizio della fine? Sarà questa una delle cause che porteranno al declino la Razza Umana, di pari passo con l’esaurimento delle fonti energetiche, del cibo e con l’inquinamento ambientale? A queste conclusioni arrivò già negli anni ’40 lo scrittore inglese George Orwel, che fu di una lungimiranza sconcertante, perché nel suo “1984”, immaginò la Società del futuro distopica, cioè composta da una comunità con regole spaventose, indesiderabili, latrice di una anti-utopia, per definizione negativa. Egli immagina un mondo dominato da una feroce dittatura, che molti oggi individuano nel potere economico, finanziario e industriale delle Lobby celate dietro i Governi moderni. Un mondo in cui ogni forma di libertà personale e di pensiero è stata repressa, vige la subdola manipolazione emotiva, che oggi si esprime anche nel mondo industrializzato e apparentemente democratico. Si vive in una condizione di guerra e paura perenne, controllati da centri di potere, sempre più occulti e diffusi, che impongono surrettiziamente visioni utili del Mondo, fra globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia, fra imbarbarimento dell’informazione e dei sistemi politici. Nella nostra realtà contingente abbiamo la fortuna di non vivere la guerra direttamente, ma la condizione emotiva indotta, è quella di uno stato di allerta perenne, latente, creato da paure costruite a tavolino e rivolte a pericoli remoti come l’immigrazione e lo straniero, che crea razzismo e rifiuto. Il Pensiero Dominante della nostra Società utilizza i Social, i nuovi Media per addomesticare i cittadini, ormai satolli di cibi, oggetti inutili e beni di consumo. Uno stesso potere omologante cerca di rendere gli uomini uguali, sottomessi e incapaci di pensare, affollandoli in gabbie da esperimento, le moderne città, in cui poter far nascere pensieri, azioni e reazioni assolutamente previste. Siamo i moderni Wilson, frastornati dal lavoro, imbambolati dagli effimeri divertimenti, dall’alcol, dai farmaci, nei casi peggiori dalle droghe, dalla promiscuità continua, che acutizza le percezioni e perdiamo il contatto con il senso di noi stessi, con le nostre esigenze emotive, scatenando le pulsioni distruttive verso l’altro? La bomba demografica potrebbe essere il pericolo maggiore per la Terra, con la sua enorme richiesta di cibo, che porterebbe all’ulteriore modifica di geografia, ambiente e natura; rispetto alle soluzioni orwelliane riguardo al controllo delle nascite, spero che non si arrivi alla creazione di una casta riproduttrice e di un resto della popolazione tenuta in astinenza “di regime”. Credo che dopo il fallimento del Capitalismo Liberale, dell’ equità sociale ed economica, l’unico modo per sopravvivere all’accentramento urbano e all’omologazione dei pensieri, per scongiurare di trasformare le città in gabbie per topi e il Pianeta in un cimitero di natura e sentimenti, sia creare cultura, stimolare il ritorno al piacere di vivere in gruppo solidale, non in gabbie ristrette e stressati dalla ricerca di cibo, di sesso e sopravvivenza. La mia speranza è che non si arrivi ad una “igiene del Mondo” basata sulla limitazione forzata delle nascite o sulla morte per carestia, guerre e malattie indomabili come l’Ebola e l’AIDS ma che si aiuti le popolazioni dei paesi a grande spinta demografica a limitare le nascite, per salvaguardare la terra. Ci riusciremo? Credo di si, storicamente l’Uomo ha sempre trovato la via.