POLITICA

DESTRA E IDENTITA’

Massimo Rostagno

“Meloni, dicci qualche cosa di destra”

Nanni Moretti, nel film Aprile, implorava Massimo D’Alema di “dire qualcosa di sinistra”. Era un richiamo all’identità e al legame sentimentale con la propria gente travolti dal cinico realismo dalemiano, ma ancor più da una nuova politica postmoderna che stava riducendo in polvere miti e linguaggi del ‘900. Oggi, a distanza di un quarto di secolo, la sinistra sembra quasi dissolta, ma quella richiesta di identità è passata nel campo opposto. Il grido di Moretti si è ribaltato in un’invocazione alla nuova leader della destra al governo: “Meloni, dicci qualche cosa di destra”. Se riavvolgiamo il nastro degli ultimi mesi possiamo ricordare che fin dalla campagna elettorale la leader della destra aveva tirato il freno a mano rispetto ai roboanti proclami demagogici precedenti  richiamandosi al dovere della “responsabilità”. I sondaggi la davano con il vento in poppa e si profilava già da allora una leadership di governo che la destra italiana non aveva mai avuto nella storia della Repubblica.  Molti esponenti – tra cui lei stessa- avevano certo fatto parte dei governi guidati da Berlusconi, ma in ruoli di junior partner. Questa volta invece le sarebbe stato assegnato un posto di prima fila, e così effettivamente è stato. Fin dai suoi primi passi da premier Giorgia Meloni ha mostrato di aver tratto gran frutto dalle lezioni serali più o meno clandestine ricevute dal suo predecessore, il professor Draghi. Ci sono alcune cose fondamentali che pare aver capito a fondo.

Primo: non si scherza con i conti. Derogare sui saldi di finanza pubblica, elargire demagogicamente per ottenere consenso, porta ad essere rapidamente uccisi dai mercati finanziari. Significa danneggiare pesantemente il paese nel suo insieme e compromettere in modo pesante i risparmi degli italiani (elettori di destra compresi)

Secondo: l’Italia fa parte dell’Europa. I problemi di oggi hanno una dimensione continentale e non possono certo essere affrontati dall’Italietta strapaesana i cui orizzonti si fermano alle Alpi. Tanto più che attestarsi in una posizione isolata e contrapposta agli altri paesi europei, magari battendo i pugni sul tavolo, solleticherà anche l’orgoglio nazionale ma condanna la nostra nazione alla irrilevanza. Sembra che Meloni abbia fatto suo il convincimento di Hannah Arendt (che probabilmente ignora) secondo cui il potere è “agire con gli altri”. Sta di fatto che è molto attenta a coltivare i buoni rapporti con l’Europa e le sue istituzioni. E con questo, addio al sovranismo antieuropeo.

Terzo: l’’Italia fa parte della Nato e del blocco occidentale. Nella congiuntura internazionale tragica in cui ci troviamo significa stare senza incertezze dalla parte degli ucraini, con buona pace delle strizzatine d’occhio a Putin e alla sua autocrazia che negli anni precedenti si sprecavano dalle parti politiche della premier.

Bastano questi tre punti fondamentali per mostrare che il governo Meloni trasuda “draghismo” da tutti i pori. Se questo è un bene per l’Italia – che infatti premia la premier con un incremento dei consensi – è un problema per i suoi sostenitori storici. Come? Per la prima volta la destra italiana prende le redini del potere, esce dal ghetto che dai tempi del MSI era il suo luogo naturale, e ciò che ne risulta è una riedizione del draghismo? Quando, cara Giorgia, dirai e soprattutto farai ‘qualcosa di destra’, per far battere il cuore dei vecchi camerati che hanno passato una vita di insulti ed emarginazione? Purtroppo per loro l’arte del governare è ben poco accondiscendente con i richiami identitari. Per averne conferma basta citofonare ai partiti di sinistra che, nella morsa delle responsabilità di governo, la loro identità hanno dovuto annacquarla fino a dissolverla, precipitando quasi irreversibilmente. Governare impone di misurarsi con le compatibilità, le urgenze ed è un esercizio in cui contano i numeri, da cui è rischiosissimo derogare, soprattutto se si vuole – come Meloni vuole – durare più dell’espace d’un matin. Il suo disegno sembra quello di costruire un grande partito conservatore di massa, che guardi molto più ai tories inglesi che ai neofascisti spagnoli di Vox, archiviando le vecchie appartenenze post missine novecentesche. D’altra parte, un partito che veleggia intorno al 30% dei voti può ben coltivare un progetto di questa portata. Se questa è la strategia per evitare che il suo governo canti una sola estate e duri nel tempo sarà necessario passare proprio sotto le forche caudine della dicotomia cultura di governo-identità. Più praticherà la prima per mostrarsi responsabile ed accreditarsi in ambito europeo, più la sua identità ne sarà annacquata e la sua base storica ne sarà delusa. E viceversa. E tuttavia non ci si può trasformare in una notte da militante missina della Garbatella a statista di rango europeo. Occorre gradualità e consapevolezza che le probabilità di fallimento sono altissime. La vecchia identità non si può gettare nel tombino da un giorno all’altro, perché con l’acqua sporca delle appartenenze c’è il rischio di buttare anche il bambino dei consensi e della popolarità. Un segno quindi bisogna pur darlo. Alcuni esponenti ed alcuni vezzi del governo Meloni sembrano proprio svolgere questo ruolo. Sventolano qualche bandierina identitaria per  marcare almeno nell’immagine la rottura con i governi precedenti: dalla denominazione del Ministero dell’agricoltura come “sovranità alimentare” (siamo sovranisti, no?) a quello dell’Istruzione e del Merito (siamo la destra contraria all’egualitarismo della sinistra); dalle più recenti sparate  su Dante fondatore della cultura di destra in Italia (lo diceva anche il fascismo)  alla circolare che vieta l’uso dello smart phone in aula (finalmente torna l’autorità dopo il permissivismo di sinistra, come se il problema fosse la norma e non la sua applicazione). Di fronte a queste sparate solo uno sciocco può gridare al fascismo alle porte, o all’allarme democratico. Sono pennellate di nero, che svolgono una funzione cosmetica e soprattutto rispondono all’invocazione richiamata all’inizio : ‘dite qualcosa di destra, per carità’. Oggi sono convenienti per la premier, che ha la necessità di lanciare qualche segnale identitario al proprio elettorato. Ma se domani il suo progetto strategico dovesse procedere, ciò che oggi le è utile rischia di diventare un problema molto serio.